Recensione a G.Marzaioli, “Suburra”

Esce, nella collana inNumeri curata da Giancarlo Alfano per Giulio Perrone Editore, una raccolta di Giulio Marzaioli che lega la sequenza poetica Suburra (in nove “atti” / misure spaziali nell’antica Roma) che dà il titolo al volume, e la sequenza teatrale o «atto unico» intitolato Ipogei. Per amore di precisione, va detto che “sotto la città” (questa l’etimologia della parola suburra che identifica poi un quartiere di Roma) e “sotto la terra” (= ipogeo) sono due momenti – in sequenza anche nel tempo – della scrittura dell’autore. Sono segnati da differenti scelte formali. Il primo porta il segno di una rarefazione del verso come dissipazione verbale delle res, caratteristica di una prima stagione del suo lavoro. Il secondo, aperto alla prosa, si qualifica come intenzionato ad accogliere dall’interno dell’orizzonte infittito delle righe (e però nella forma già disintegrata in advance dalle identità teatrali rese con lettere dell’alfabeto) le slogature e sfocature del reale.

Le due sezioni, tuttavia, non si fronteggiano come entità estranee, anzi – sia pure per contrasti – si rimandano echi puntuali.

«Alla verticale aerea di Suburra segue l’orizzontalità ctonia di Ipogei» (Alfano). Di fatto Suburra è tessitura rastremata monologica – dal taglio anche visivamente percepibile in tal senso, dato da una colonna di versi brevissimi sulla pagina – mentre Ipogei tende alla dimensione estesa e giocoforza dialogica (teatrale). Altre differenze sono già nel titolo. Singolare il primo, plurale il secondo: etimologicamente centrato sullo spazio urbano il primo, ampiamente tellurico-terreno-terrestre il secondo (e però, in sostanza: “urbs” è formicaio-pluralità; mentre Terra è blocco). Il singolare-plurale si inverte e reinverte nel corpo dei testi: Suburra è voce singola suddivisa in “atti”, Ipogei è “atto unico” diffratto in voci.

Lo stillare (Alfano) versale della prima sezione, a sua volta, denso di rinvii sonori, rime, ricorrenze, affida a una “poesia di parola” (pura-impura) un gioco serio e coraggioso con una biografia elusa, sottratta prima di esser data (“ogni / punto / di fuga / è fissato”, “toglimi / da queste / mani / da queste / unghie”), tuttavia in bilico costante su elementi di pericolo (caduta, peso del corpo) che ostinatamente si rifiutano all’aneddoto, alla concrezione nominale, ma anche – più in generale – alla storia.

La poesia di Marzaioli ha sempre in effetti avuto la caratteristica di un lavoro sulla minuta tessitura linguistica, a volte generosamente giocata in anfibologie, doppi percorsi semantici, senza accedere al peso-gravitazione dell’evento o personaggio o oggetto stagliato, detto, inusuale o meno, comunque concretato. Una tangente sonora soffia via il testo sempre un istante prima che le dita possano stringerne i dati, i punti narranti. Se in alcuni autori contemporanei il momento di fuga avviene dopo, nello scompigliare e togliere dalla pagina quello che pure era stato il primo arredo di nomi, materiati; in altri come Marzaioli la spoliazione del palco visibile è anticipata, si dà quasi come precondizione della scrittura. Questo dà invariabilmente luogo a una (quasi) sensazione di “premonizione sonora” di eventi e cose. Uno scandaglio in rime e ricorrenze, iterazioni, ritorni-riscontri, a cui non fa seguito l’esibizione della fonte, della massa che di quelle onde sonore era senz’altro il sagomato originale.

Tale meccanismo, spesso si fa portatore di sorprese. Ma il turning point in Suburra è semmai, penso, proprio la sezione Ipogei, dunque la parte di prosa teatrale.

Una cascata (non più un gocciare) di nominazioni, ben circoscrivibili, fa qui la sua comparsa, per essere appunto mescolata e ritratta, sottratta, fatta incerta, ma successivamente alla sua apparizione. (E così ricodificata). Sulla carrozza di metropolitana di Ipogei, entrano nel dialogo tra i compagni di corsa: l’idea di un viaggio al mare, o «in montagna», verso «laghi»; una voce che avvisa della «presenza di borseggiatori»; un’ipotesi di cena «sul pontile» (nell’immaginabile viaggio in progetto); l’odore di «un misto di pioggia, erba e … stanza chiusa»; la «linea gialla» della banchina in stazione; «gli oligoelementi […] per il buon funzionamento del metabolismo»; «le proprietà cicatrizzanti dello zinco»; «liquido scivoloso sulla banchina»; la descrizione abbastanza particolareggiata della struttura delle rotaie del treno; una «paga sicura»; «il fischio dei freni»; e molti altri dettagli. Nomi, cose. Afferrate in una tela di battibecchi fra identità e voci che non prendono definizione ma pure si affidano appunto agli attriti fra ricorrenze, esortazioni a scendere, insulti, scartamenti, ironia.

È dunque forse in questo secondo momento della raccolta (e della scrittura) di Marzaioli, che viene ad affiorare il continente di nominazioni che una prima stagione circoscriveva per impulsi radar di forma vigilatissima e spoglia. Si tratta dunque di un passo ulteriore del laboratorio di un autore che come pochi altri oggi si dispone alla metamorfosi e alla crisi sempre implicite nella scrittura di ricerca affrontata con rigore.

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recens. pubblicata su «l’immaginazione»,
a. XXVI, n. 252, gen.-feb. 2010, p. 57