un buon numero di volte è fuori clinica
(che non è chiaro quando, quando no)
di’.
(quello che vede senza commenti)
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Il primo elemento che noto (la prima cosa offerta) è il titolo, Shelter, che significa – in inglese – riparo, rifugio, ospizio, e in qualche modo luogo ospitale, e… ospedale (potenza o impotenza eccessiva della sintesi). Dato questo ventaglio di accezioni, da lettore che non ha incontrato mai né altre poesie di Giovenale né suoi testi teorici o riflessioni su reclusione, separazione, scrittura del dolore, ho in ogni caso un numero di suggerimenti che mi spinge a cercare i dati semantici del testo, le linee e i temi, in alcune direzioni precise, penso: riparo, rifugio, ma forse anche prigione, separazione, distacco. Però trovo tali termini in certi casi contraddittori: se sono rifugiato, riparato, non starò in prigione, mi dico. Se sono segregato e separato, non mi sento al sicuro.
Ma poi, anche, mi dico che forse proprio un rifugiato può – dal paese che lo ospita, dall’ospizio che lo tollera – essere oggetto di intolleranza, di controllo, di sguardo sospettoso. Indirizzerò allora la mia attenzione a questa duplicità. O la terrò per sfondo possibile, in attesa che le poesie mi dicano cosa succede in questo Shelter.
Ora leggo la prima della serie qui esposta e trovo che si parla proprio di una clinica. (Cosa che in qualche modo, ma non con forza eccessiva, può – volendo – rimandarmi a un termine centrale nelle ricostruzioni storiche e nel pensiero sia di Foucault che di Deleuze. Tuttavia questo può non essere essenziale. Anche perché la memoria logicamente non può non correre allora a Campana, Artaud, a una lunga – troppo lunga – teoria di nomi).
Torno al testo. Inizia così: “un buon numero di volte è fuori clinica”.
L’oggetto o soggetto del discorso, un personaggio ignoto, non nominato, qualche volta è “fuori” dalla clinica. Il nome “clinica” qui assume dunque il ruolo del riparo-rifugio: un qualche personaggio è, per “un buon numero di volte”, “fuori clinica”.
Il secondo verso è “(che non è chiaro quando, quando no)”.
Si mette parzialmente in forse una libertà, il “fuori clinica”. E il “che” sintatticamente spiazzante della frase tra parentesi dice che alla fin fine non è chiaro quando questa persona X è ‘dentro’, riparata e pure sorvegliata, e quando accade altrimenti.
Posso pensare così che ci sia un ‘gioco’, un’alternanza, un rapporto lasco, non costrittivo, nell'”entrare o uscire dalla clinica” [n.b.: non è scritto “fuori dalla clinica” bensì “fuori clinica”: come se si dicesse “fuori fase”: ma allora essere “in fase” – e normali – vorrà forse dire essere sottoposti a controllo, ad attenzione clinica? Un input interessante, probabilmente, questo qui, suggerito dal testo con la sola omissione di “dalla”].
Inoltre. Posso pensare che la tale persona “entre e esce” dalla clinica (come si dice spesso di malati gravi, mentali per esempio), perché le sue condizioni migliorano e peggiorano senza ordine, e in base a questo fatto lui viene o no rinchiuso. O infine posso pure pensare – e le parentesi suggerire – che “non è chiaro” quando il malato si salva dalla clinica, quando ne esce, quando ha facoltà (attribuita o riconosciuta, imposta o rilevata) di salvarsi. E insomma posso perfino giungere a ritenere che la frase tra parentesi sia non un semplice racconto ma un’allegoria, addirittura; e mi trovo quindi ad avere sospetto che si tratti di una frase riferita a un contesto più ampio di quello esposto in una mera occorrenza aneddotica, in una storia minuscola che dice che c’è uno (uno in particolare, anche se la poesia non dice chi) che entra e esce da una clinica.
Il piano allegorico direbbe insomma: non è chiaro, limpido, accertabile, quando per chiunque/qualcuno si è “fuori” clinica, fuori del controllo-riparo-prigione. (Fuori sesto, fuori fase…).
Passo poi all’esortazione “Di’”, che da sola occupa il verso 3 della poesia, e sembra rappresentare un invito della poesia all’autore, o della voce narrante al testimone. Ma cosa deve dire l’invitato, colui che è spinto a far uso della parola, colui che la facoltà di parola ce l’ha? La risposta è di nuovo forse sottovoce, tra parentesi, al verso 4: “(quello che vede senza commenti)”.
Allora i versi 3-4 possono significare: “tu, o interlocutore [lettore, autore, testimone] dimmi, dicci cosa lui, l’internato, il rifugiato, vede, senza aggiungere commenti tuoi” ma anche “tu, o interlocutore [lettore, autore, testimone] dimmi, dicci cosa lui, l’internato, il rifugiato, vede senza poter commentare, senza (tu o lui?) essere in grado di commentare”. (Per via della sofferenza che la visione comporta, per un mancato accesso completo alla parola, per il fatto di uscire e entrare dal dolore del vedere, del controllo, dall’essere spiato, o dal troppo spiare).
Ecco.
Alla chiusura di questo quarto verso, abbiamo il resto della sequenza: le altre poesie. Come se (dunque) il primo testo, i suoi quattro versi, fossero un’esortazione, sulla soglia dello Shelter, all’osservazione.
Le poesie che seguiranno saranno allora forse – per rubare un titolo ad Andrea Inglese – quello che si vede. (Quello che vede il malato? il medico? il testimone? un autore di versi?).
Bon, in ogni caso: questa è una possibile lettura dei quattro versi iniziali della sequenza.
Questo leggo, proprio da lettore, dall’esterno, nel testo che è scritto. O almeno: questo ho libertà di leggere, nel testo dato, in questi quattro versi, applicando uno sguardo libero, credo.
Nei testi ulteriori posso fare lo stesso, oppure no. Posso inoltre trovare delle difficoltà, delle asperità non altrettanto linearmente scioglibili. Posso incontrare qualche arbitrio autoriale, ossia qualche frase che non ingabbia e blocca il verso o i versi a una decifrazione possibile, ma li àncora a una scelta impoderabile, o a una conoscenza pregressa di elementi che possono non essere patrimonio comune.
Però ho il sospetto o il pensiero o insomma nutro la (spero fortemente mai arrogante e impositiva) persuasione che così non sia. Ritengo cioè che il testo produca senso, ma senso che chiede uno sguardo connettivo e indagante al lettore. Dunque che il testo sia non un lavoro su forme condivise, ma una condivisione in atto, che si spende nell’atto della lettura, se si vuole che la lettura venga – con lentezza pari all’attenzione – a distendersi perfino pigra e sorniona nella propria libertà per afferrare il percorso e i dettagli del testo con una certa cura. Quasi con amore, se dire amore non fosse usare una parola grossa.
Una scrittura diversa, una poesia diversa, non di Giovenale, un senso o modus narrativo, esplicitante, immediatamente appariscente sa – lo ammetto – farsi amare più immediatamente. Ma il tipo di affezione / azione ermeneutica che testi come i miei chiedono è proprio – se ci rifletto – un gesto fisico, un incontro. Anche se avviene con quella parte del corpo che è la voce, magari, condotta dall’intelletto, applicato anche sui primissimi lineari elementi della pagina.
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[http://www.nazioneindiana.com/2010/09/22/sette-testi-da-shelter/#comment-140925]