Recensione a:
Massimo Gezzi, L’attimo dopo, Sossella 2009, pp. 104, euro 12.
Evento felice e non scontato per un libro di poesie: la raccolta di Massimo Gezzi, L’attimo dopo, uscita per Luca Sossella nel dicembre 2009, è giunta in meno di un anno a una meritata seconda edizione. Non è il primo libro dell’autore (nato nel 1976, assistente di Letteratura italiana a Berna): aveva pubblicato nel 2004 Il mare a destra, nella collana editoriale della rivista Atelier; e nel 2007 una sequenza di testi nel Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, a cura di F.Buffoni).
Di Gezzi si può dire – e in questo senso se ne scrive giustamente da diversi anni ormai – che nella sua generazione è tra gli autori definibili di sintassi. È cioè tra i più coscienti nella ridefinizione di un percorso lirico che passa per la strada non facile di una metrica in sostanza classica (fondata sull’endecasillabo), non nemica di attenti e non artati enjambements e spezzature, nella continuità-fluidità del discorso. Il flusso delle frasi è formato dalle o scomponibile nelle unità metriche note, in accordo con una sintassi salda che tiene la linea portante del significato senza dissipare subordinazioni, senza tentare – in questo senso – azzardi di ulteriori frantumazioni, fossero pure sotto l’ombrello non spiazzante della reticenza e dell’anacoluto.
Detto ciò, va aggiunto che, al livello delle unità superiori, ossia delle poesie, dei testi compiuti e dell’uso e modulazione che questi fanno delle caratteristiche appena elencate, esistono vari registri nel libro L’attimo dopo, ma che due sembrano tenere con maggior evidenza degli altri il campo: uno narrativo-allegorico, e uno – più indefinibile – che sembra, spiccando sempre su uno sfondo allegorico, attenuare le evidenze strette del narrato (e dell’io come asse portante) per affidarsi a una parziale indefinizione delle occasioni e situazioni di vita date.
Non sarà un mistero che chi qui scrive ha ragioni per prediligere il secondo modus. Lì dove il materiale è tutto dato ed esibito, infatti, il percorso di comprensione si fa – per il lettore – più breve e risolto e, nonostante i ritmi e il bulino modulante dell’autore, aperto, accertato, lieve. E la levità e delicatezza/leggerezza del fondo, ground, ‘pavimento’ assertivo di un testo, la sua esposizione si direbbe, la sottigliezza (non sensiblerie, sia chiaro), è un rischio testuale non solo per il passo spiccio e malaccorto del lettore di grana grossa, che va sdegnato, ma anche per quello fermo e indugiante che vorrebbe attardarsi in un labirinto o in un riquadro di ombra, di inesplicito. Nel libro tutto è (pur sapientemente) in luce.
Detto ciò, non si può ridurre a meccanismi di stile – che pure ci sono – le doti di positiva/paradossale osservazione come indefinizione (mai assoluta, e mai alonante) del paesaggio e degli eventi, che sono a mio parere le doti e la ricchezza del libro fin dal titolo. Libro che definisce una linea testuale legata al sentimento del tempo, sì, ma soprattutto all’impermanenza, allo sfaldarsi-riattestarsi delle esistenze, a «una memoria che non si sgretola», e così alle ricordanze (e ai ricordanti, sempre pure riguardanti) che fissano quelle esistenze in clic araldico, momento, gesto, anch’esso però già aggredito dal buio.
Cosa succede nell’“attimo dopo”? Il peso – fenomenologico – che la coscienza avverte, patisce e accerta, è quello delle cose, delle costrizioni, delle mancanze da cui pure nasce azione, una necessità («partire», «contare le finestre illuminate / nel buio»). Se di indefinizione nell’osservazione si tratta, è attivamente conoscitiva. Disegna ciò che prima del verso non esisteva. Il testo che apre la raccolta è, in questo, decifrabile sì nel senso dei disastri (tellurici e politici) che attraversano da sempre l’Italia, ma anche e precisamente nella direzione di una non scontata cognizione del dolore: «Poi ci fu una scossa repentina, / e i muri cominciarono a frantumarsi / e a spaventare gli insetti che ci vivevano dentro. / Non c’è più lavoro, ci dicevano / sorridendo, non ci sono più affetti / capaci di farci amare queste sedie, queste mura, / il silenzio che si ascolta parlare solo quando / percepisci il tempo scorrere, o ricordi qualcuno».
Marco Giovenale