Recensione a Ottavio Fatica, “Le omissioni”


Recensione a:
Ottavio Fatica, Le omissioni, Einaudi, Torino 2009, pp. 90, euro 10.



Attraverso la raccolta di poesie Le omissioni, di Ottavio Fatica, uscita presso Einaudi nel 2009, una annotazione ampia potrebbe avviarsi, venir accennata, e contrario, in riferimento a un’area che appunto dallo stile di Fatica appare decisamente, recisamente lontana: la scrittura di ricerca. Sarà indagine da tentare, altrove; qui un inizio di riflessione dà già modo di precisare i contorni de Le omissioni.

Un calembour, in avvio, soccorre, a chiaroscurare i distinguo: nel caso di Fatica, è in gioco una linea non di  ricerca, semmai ricercata. (Sottraendo interamente al termine l’accezione negativa, di artificiosità). Come per il distante ambito sperimentale, per Fatica si deve parlare di un lavoro testuale che chiede al lettore di andare verso il libro; lavoro che cioè non dà d’impatto e in pieno a chi legge un percorso – preformato, orientato – che non implichi azione. È certo in gioco un lessico e stile che (come quello e diversamente da quello sperimentale) non può allora piacere ai pigri.

Ma se nel caso di alcune vie della sperimentazione è richiesta a chi legge un’apertura di credito nei riguardi di lessici destrutturati, latenze, neoformazioni, zero rime o parossismo di suoni, nel differente-affine caso della scrittura ricercata ci si trova di fronte a uno stile che spinge il lettore all’incontro sul territorio dell’apparentemente già noto. Fatica punta verso (e imperativamente chiede) l’assenso a stilemi, forme, modi, che – sul piano soprattutto microstrutturale, in lemmi, vocaboli – appaiono usurati, visti-vieti, e sono invece in tutto ostaggi – qui – di una novità o fantasmagoria energica di contenuti, invenzioni, solidità aforistica, pensiero, suono-senso, spessore etimologico, cioè in una parola connotazione. La festa è dell’intelligenza, dei riferimenti o chiavi (Boccaccio, Shakespeare, tra moltissimi), come del linguaggio, sì, ma se ci si dispone a un linguaggio che riverifica, ri-varia e di conseguenza riconnota il noto, le retoriche date.

Se leggiamo un avvio di testo come «Il gigantesco salice spioveva lacrimevole», sappiamo per altri aspetti bene (come l’autore sa) di dover accordare al lettore una generosità o indulgenza peculiare: quella dell’accoglienza – o pedaggio non imposto ma felice – al tot di assertività che la frase veicola. Si accoglie così pure il tempo imperfetto (che innestato nei salici dà ben nota malinconia), si accoglie il “gigantesco”; e il “lacrimevole”, anche, si accoglie, il più duro/acquatico di tutti gli aggettivi da usare, in poesia (e in incipit, addirittura). Tutto il resto, tutto il testo, poi, in verità – proprio per tale indulgenza e ascolto – premia chi legge. È niente affatto una poesia solo malinconica, pur se (e proprio perché) il salice è specchiato, è «a rovescio / sull’antiterra madre» (che, si vede, rovescia a sua volta — con “anti-” e iperbato — il cliché “madre terra”). Il salice così, per tutto il corpo-arco del testo, che qui non si cita, affronterà peripezie e inversioni, e rientri grafici, prima dell’aforisma quasi anagrammatico di chiusura, che parla di «una terra per noi / tra tutte rara». Il lettore che si affida al percorso da fare, verso ciò che ritiene (a torto) già noto, sarà sorpreso.

Tematicamente, già nella prima poesia si celebra «la stella del non credere» e l’atemporale «tempo di ora», che una piccola pietra sigilla così come in cima a un fitto di fogli si mette la saggia «pietra sopra». (Questa solida istanza di presente, direi, sta poi in un’altra fra le poesie maggiori del libro, intitolata Massacro,  in fine di volume: si conclude – quasi stesse compitando un Nietzsche – con «Ma ora e per quest’ora e fino a nuovo ordine / gli antichi siamo noi»). In questa identità “petrosa” non si gioca però tutto lo spirito del libro, che sta in molti fili, suggerimenti, a cui ci si può avvicinare facendo una serie di nomi, alcuni prevedibili altri forse meno. Il primo, e più certo, è Montale: ma come fosse qui riportato di colpo con tutto il suo lessico e l’asciuttezza quasi cinica del post-Diario (il Montale tardo, disamato dai lirici, per dire) daccapo al tempo e alle forme dei primi tre libri, fluidi-sintattici, pensanti – e modernisti. Ecco la parola: Modernismo (si chiude, Le omissioni, con il verso-incisione: «ego     minimus modernorum»). Forse. Con Fatica non si è affatto sicuri – e in fondo con nessun autore succede – di cavarsela con giusto una parola o formula. Le formule sono qui più che mai impressionismo, nomignoli lucignoli, superflui. La superficie testuale da illuminare è ampia e nel dettaglio labirintica, e servirebbero sguardi più acuti: serviranno. Ma il “forse” usato sopra si applica meno al «modernorum» (del Modernismo si può essere sicuri) che al «minimus». Ché non è minimo per niente, questo libro, e dunque l’autore.

Si possono allineare allora altri nomi (per niente piccoli), come quello di Ripellino, o quello – meno predibile forse dallo stesso Fatica – del Vito Riviello del libro L’astuzia della realtà (Vallecchi, 1975). Dove il disincanto è – come del resto in tanta parte del lavoro successivo di questo autore – così asciugato dal lirismo da slittare volentieri nel giocoso.

Càpita a Le omissioni – con diversa amarezza – di esserne libro ben generoso: «Il resto è scoria», «come rospo tra i rospi intorno al mar / Mediterraneo intorno a una palude», «qui non c’è / disciplina che insegni a dissognare / la realtà – siamo fermi ai romantici», «ci salverà la carta da parati?».

Ma questa rapida lista non inganni. Più che a sorriso, il testo spesso è condotto a un punto di estremo – si può dire – ghigno, che traduce coscienza, per imprimere risalto e nominare ciò di cui non si vuole sorridere o ridere: il dolore, tema costante nel libro, ma asciuttamente, come deve essere. In questo, sono addirittura paradigmatiche le poesie – in successione, e non casualmente fonti delle citazioni appena fatte – Le lacrime in natura (pp. 55-56), e La controra (pp. 57-58). Impossibile riportarle qui per intero. Della seconda, in particolare, va segnalato il senso – daccapo – montaliano (ovviamente platonico, ab origine) della prigionia nel corpo, nel soffrire, e del troppo ritardato e inutile dischiudersi del «portale» (“alti eldoradi”? salvezza?): forse il «troppo tardi / è sempre troppo tardi» di Fatica estremizza il «sempre più tardi» di Dora Markus.



Marco Giovenale