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tic talk di aprile: 12, 19, 26

con

Alessandro Broggi, Agostino Bertani, Fiammetta Cirilli

cantiere: bruno snell, eraclito

Già Schleiermacher (fr. 10 della sua numerazione, p.333) traduce: “Il signore, il cui oracolo si trova presso i Delfii (sic), non spiega né nasconde ma accenna (deutet an)”. E da allora questa traduzione: “accenna” si è conservata. Ma così la proposizione non presenta una contraddizione? Se Apollo “accenna” soltanto, allora evidentemente esiste per lui un’effettiva univocità che per una qualche considerazione egli tace: dunque egli nasconde qualcosa. Ma Eraclito dice esplicitamente che egli non nasconde nulla. E poi semaíno non significa mai “accennare”. Esso significa: dare un segno. Del resto esso viene impiegato anche con particolare riferimento a segni divini. Ma qui cosa potrà significare questo: egli dà un sema?

Si richiami soltanto alla memoria di quale specie erano gli oracoli cui Eraclito può riferirsi. In Erodoto leggiamo che quando a Delfi Creso si informò sulla progettata campagna contro i Persiani, gli fu fatta la seguente profezia (Erodoto, I 53): “se tu oltrepassi l’Ali, distruggerai un grande impero”. Questo è un tale […] oracolo “a doppio taglio e a due facce” (come dice una volta Luciano, Juppiter Tragoedus 43) che non esprime chiaramente ma neppure nasconde, bensì – questo è decisivo – che dà il senso e il senso contrario. La risposta del dio presenta un sema, un simbolo, che semplicemente c’è.

E semaínein è il termine proprio per “significare” (bedeuten). Qui abbiamo il collegamento con il logos di Eraclito. Anche il logos, il senso, semaínei, non parla univocamente come il nume ma neppure nasconde nulla, bensì c’è in quanto sema e “significa”. Questo logos è effettivamente simbolo del mondo, poiché anch’esso semplicemente c’è, indifferenziato e unitario, come l’universale.

I giovani pescatori che si cercavano i pidocchi si sono rivolti all’indirizzo di Omero in questo modo (fr. 56): “quante cose abbiamo viste e prese, tante lasciamo; quante non ne abbiamo né viste né prese, tante con noi rechiamo”. Ma Omero non ha intuito il doppio senso, così come Creso non ha compreso la duplicità di senso dell’oracolo. E così anche gli uomini si lasciano ingannare dalla gnosis ton phaneron (conoscenza delle cose evidenti). La storia che narra come Omero sia morto di disperazione per la sua confusione di fronte a questa proposizione di sicuro non è granché spiritosa. Ma Eraclito la riprende, perché è un esempio semplice e ben conosciuto per ciò che considera come l’essenziale del logos. Chi nel linguaggio non vede nient’altro che uno strumento, per fissare e trasmettere una determinata conoscenza, non comprenderà mai qualcosa del senso profondo del mondo, così come esso appare nel linguaggio, e del significato autentico del logos. In Eraclito, quindi, la predilezione per i giochi di parole non è mai soltanto uno scherzo spiritoso, bensì un richiamo costante a questa singolare essenza duplice del logos, che ha significato univoco e tuttavia duplice.

Bruno Snell, Die Sprache Heraklis (1926)
Tr.it. di B.Maj: B.S., Il linguaggio di Eraclito, Corbo, Ferrara 1989, pp. 24-26

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Cantiere: “Oggetto e soggetto”

Ma che cosa vi fa supporre che perdendo le coordinate di oggetto e di soggetto voi veniate a mancare di qualcosa? Chi vi spinge a credere che gli articoli e i pronomi indefiniti (uno, si), le terze persone (lui, lei), i verbi infiniti sono affatto indeterminati? Il piano di consistenza o di immanenza, il corpo senza organi, comporta dei vuoti e dei deserti. Ma questi fanno “pienamente” parte del desiderio, ben lungi dall’approfondire una qualsiasi mancanza. Che curioso, confondere il vuoto con la mancanza! Davvero ci manca in genere una particella d’Oriente, un grano di Zen

 

Gilles Deleuze, in G. D.- Claire Parnet, Dialogues (1977)

 

tr. it. di G.Comolli: Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni (Feltrinelli 1980; Ombre corte, Verona, 1998: p.94)

“assertivo”

l’unico “umanesimo dichiarativo” (il poetare assertivo!) che sia sensato, che non sfondi con le sue retoriche infangate di bontà o lallazione i timpani di chi l’orecchio ahilui l’ha coltivato, è quello ammalato di Zanzotto, complesso.

o è il lavoro poetico di Sannelli, anche. quello dei versi diffratti in spezzature. dichiara e – perfino – “confessa”. ma lo fa immettendo un tale numero di deviazioni e fratture del/nel percorso, da attestare e far valere e vincere la necessità del clima opaco, umbratile, del luogo che crea.

in quel luogo si passa, si va, si abita — per scoprire; per rischiare, senza pre/vedere, il guadagno e la perdita. non ci si sta comodi. quel che vi viene affermato non è fermo, dato, noto. ha senso conoscerlo, allora; osservare.

cantiere: “beckett, proust”

La memoria involontaria è esplosiva, “una deflagrazione immediata, totale e deliziosa”. Essa risuscita, e non soltanto l’oggetto passato, ma anche qualche cosa di più, perché qualche cosa di meno; di più perché isola l’utile, l’opportuno, l’accidentale, perché nella sua fiamma ha distrutto l’Abitudine e tutte le sue opere, e nella sua luce ha rivelato ciò che la falsa realtà dell’esperienza non potrebbe mai rivelare e non rivelerà mai – il reale.

Samuel Beckett, Proust (1931)

tr. it. di C.Gallone: S.B., Proust, Sugar, Milano 1962 (rist. Sugarco 1978, 1994: p.44)

cantiere: elizabeth bishop

“Credo di apprezzare l’umorismo come tutti, ma mi ha sempre molto amareggiato che al giorno d’oggi tante persone intelligenti pensino che qualsiasi cosa accada loro debba per forza essere divertente. Intanto questo atteggiamento mina la conversazione e la corrispondenza, rendendole monotone, e poi penetra in profondità, corrompe le nostre capacità di osservazione e di comprensione”

Elizabeth Bishop, In prison (1938)
tr.it. in E.B., Il mare e la sua sponda , Adelphi, Milano 2006, p. 31

cantiere: benjamin

“Lambiccarsi pedantescamente il cervello per creare prodotti – materiali visivi, giocattoli o libri – adatti ai bambini è sciocco. Sin dall’illuminismo è questa una delle fissazioni più stantie dei pedagoghi. La loro infatuazione per la psicologia gli impedisce di accorgersi che il mondo è pieno dei più incomparabili oggetti dell’attenzione e del cimento infantili. Dei più azzeccati. È che i bambini sono portati in misura notevole a frequentare qualsiasi luogo di lavoro in cui si opera visibilmente sulle cose. Si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici o di giardinaggio, in quelli di sartoria o di falegnameria. Nei prodotti di scarto riconoscono la faccia che il mondo delle cose rivolge proprio a loro, a loro soli. In questi essi non riproducono tanto le opere degli adulti quanto piuttosto pongono i più svariati materiali, mediante ciò che giocando ne ricavano, in un rapporto reciproco nuovo, discontinuo”.

Walter Benjamin, Einbahnstrasse (1928)

tr. it.: Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983 (ed. 2006: pp. 11-12)

Non diversa potrebbe essere un’osservazione relativa non soltanto ai materiali della poesia (che ad avviso di chi scrive sono poi sostanzialmente di origine onirica: perché anche quando si sceglie ‘per cut-up’ lo si fa all’interno di un’esigenza preorientata dalla propria identità – in larga parte inconscia); ma alle stessi prassi compositive, fotografiche, artistiche, e perfino alla critica letteraria; e diciamo – in senso ampio – a tutta quella serie di deviazioni e mancanze e colpi a segno che ruotano attorno agli enigmi che chiamiamo “oggetti estetici”.

L’oggetto-soggetto di senso si ferma e forma nel fondo dello sguardo catturato da quanto di più banale si dà attorno. La scrittura di ricerca, l’esperimento, è materia di tutti i giorni. Davvero experiments = daily codes.

I codici che comunemente balzano agli occhi, per frammenti più o meno irrelati (e non necessariamente variabili in questa loro non relazione reciproca), nascono dalle esperienze più ordinarie. Un angolo formato da due oggetti, un segmento inatteso di luci all’interno della raggiera che quotidianamente si forma nella stanza, l’epifania di tre quattro frasi casuali (e per niente ‘poetiche’) còlte camminando, dettagli nel moto complessivo di una massa di persone in una via, eccetera.

La capacità di riorganizzare questi materiali (a volte autosufficienti: solo ‘in attesa’ [non ontologica; semmai data da noi] di qualcuno che li fermi e afferri) è l’attività artistica. O ne costituisce gran parte.