Archivi tag: Albrecht Dürer

da oggi, 13 ottobre, a villa medici: “storie di pietra. sulle tracce di roger caillois”

VILLA MEDICI / Académie de France à Rome
Viale della Trinità dei Monti, 1 

Mostra STORIE DI PIETRA

Sulle tracce di Roger Caillois

Da oggi, 13 ottobre 2023, fino al 14 gennaio 2024

Curatori: Jean de Loisy e Sam Stourdzé

Compagne delle nostre fantasticherie, le pietre, più antiche della vita, hanno esercitato sugli esseri umani un fascino di cui ognuno di noi condivide l’esperienza: una raccolta, un lancio, una contemplazione ammirata. Poeti e artisti di tutte le epoche artistiche hanno testimoniato le profonde influenze che queste presenze silenziose hanno avuto sulle loro creazioni.

Il grande scrittore surrealista Roger Caillois, la cui esposizione di notevoli esemplari minerali tratti dalla sua collezione costituisce il prologo di questa mostra, descriveva così questo rapporto insistente: “Più di una volta mi è capitato di pensare che fosse opportuno guardare alle pietre come a una sorta di poesia”. Accompagnata dalla prosa dello scrittore, la mostra è il romanzo di questa frequentazione continua che rivela come questi minerali occupino una posizione decisiva intermedia tra il capriccio della natura e l’opera d’arte.

La mostra Storie di pietra presentata a Villa Medici ha beneficiato dei prestiti di oltre 70 istituzioni e raccoglie quasi 200 opere, dal più antico minerale terrestre risalente a 4,4 miliardi di anni fa fino all’ultimo minerale creato dall’artista contemporanea Agnieszka Kurant, la Sentimentite. Il percorso si snoda in dieci sale espositive e prosegue nell’antica cisterna di Villa Medici, negli appartamenti del Cardinale Ferdinando de’ Medici e nell’atelier Balthus. Continua a leggere

“storie di pietra. sulle tracce di roger caillois”: dal 13 ottobre a villa medici, roma

VILLA MEDICI / Académie de France à Rome
Viale della Trinità dei Monti, 1 

Mostra STORIE DI PIETRA

Sulle tracce di Roger Caillois

Dal 13 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024

Curatori: Jean de Loisy e Sam Stourdzé

Compagne delle nostre fantasticherie, le pietre, più antiche della vita, hanno esercitato sugli esseri umani un fascino di cui ognuno di noi condivide l’esperienza: una raccolta, un lancio, una contemplazione ammirata. Poeti e artisti di tutte le epoche artistiche hanno testimoniato le profonde influenze che queste presenze silenziose hanno avuto sulle loro creazioni.

Il grande scrittore surrealista Roger Caillois, la cui esposizione di notevoli esemplari minerali tratti dalla sua collezione costituisce il prologo di questa mostra, descriveva così questo rapporto insistente: “Più di una volta mi è capitato di pensare che fosse opportuno guardare alle pietre come a una sorta di poesia”. Accompagnata dalla prosa dello scrittore, la mostra è il romanzo di questa frequentazione continua che rivela come questi minerali occupino una posizione decisiva intermedia tra il capriccio della natura e l’opera d’arte.

La mostra Storie di pietra presentata a Villa Medici ha beneficiato dei prestiti di oltre 70 istituzioni e raccoglie quasi 200 opere, dal più antico minerale terrestre risalente a 4,4 miliardi di anni fa fino all’ultimo minerale creato dall’artista contemporanea Agnieszka Kurant, la Sentimentite. Il percorso si snoda in dieci sale espositive e prosegue nell’antica cisterna di Villa Medici, negli appartamenti del Cardinale Ferdinando de’ Medici e nell’atelier Balthus. Continua a leggere

artecinema 2021: a napoli da oggi, 15 ottobre 2021

still da “La rivoluzione siamo noi. Arte in Italia 1967/1977” (Italia, 2020), regia di Ilaria Freccia

ARTECINEMA 2021
a cura di Laura Trisorio
Teatro San Carlo – Teatro Augusteo – Napoli
15 – 22 ottobre 2021
In programma, in questa 26esima edizione, 24 film – divisi nelle tre sezioni: arte e dintorni, architettura e design, fotografia – all’80% in anteprima nazionale, con alcuni titoli in anteprima mondiale. Tra gli artisti documentati in rassegna: Marina Abramovic, Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Christian Boltanski, Albrecht Dürer, Lucio Fontana, Helmut Newton, Pino Pascali, Michael Rakowitz, Eugenio Tibaldi, John Wood & Paul Harrison, gli architetti Alvar Aalto ed Ettore Sottsass.

Infine il film su Man Ray, ripreso nel 1937 durante le vacanze ad Antibes, con gli amici Pablo Picasso, Dora Maar, Paul Eluard, Lee Miller. Durante quell’estate, Man Ray e la sua giovane compagna Ady Fidelin, incontrano infatti un gruppo di amici all’Hôtel Vaste Horizon, nel villaggio di Mougins. Ci sono il poeta Eluard e sua moglie Nusch, Roland Penrose e la sua futura sposa Lee Miller, Picasso e Dora Maar: Man Ray riprende i suoi amici con la telecamera costruendo i piccoli sketch che accompagnano la storia raccontata in questo film di François Lévy-Kuentz, dal titolo Un été à la Garoupe.

(Claudia Giraud)

 

ashbery, dürer, accumulo

Il 14 marzo scorso, in occasione di una lettura a RadioTre, per il programma Chiodo fisso, a cura di Loredana Rotundo [testi / audio], ho letto una poesia di John Ashbery, Presagio, dalla raccolta Autoritratto in uno specchio convesso, offrendo qualche veloce annotazione critica, e poi connessioni di massima con tre frammenti dalla sequenza Camera di Albrecht, testo conclusivo del mio In rebus (Zona, 2012; cfr. anche NI).

Quello che si può ascoltare in rete sul sito Rai (cfr. sopra) è quanto detto direttamente al microfono. Quello che propongo qui di séguito è il file organizzato – ma non letto – per l’occasione, la traccia di fondo che ho tenuto presente per quel discorso.

Presagio, di John Ashbery, viene da una raccolta del 1973, uscita per Garzanti nel 1983 nella traduzione di Aldo Busi, con introduzione di Giovanni Giudici. Si intitola Autoritratto in uno specchio convesso, ed è forse tra le opere più facilmente definibili ‘icastiche’, definitorie, paradigmatiche, per dare un disegno della scrittura di Ashbery e delle sue caratteristiche stilistiche e tematiche.

Il vetro dei testi poetici entro cui sguardo e stile si specchiano è bombato, probabilmente opaco, e in questo suo aggiungere – dunque – imperfezioni e latenze e appunto opacità al ritratto, risulta paradossalmente più fedele e vicino al vero, al dato, ai fatti, rispetto alle ragioni di una ipotetica e irreale/irrealistica riproduzione o restituzione (sedicente fedele) delle cose.

Nel testo, fin dal principio vediamo che non è un elemento solido ma una duplice inafferrabilità a tenere la scena: una «brezza» e un «lago». Aria e acqua sono dunque i primi nomi che incontriamo. Poi «effetti da luna-park»: immaginiamo insomma questo ritratto di figura che dice noi e non io, al margine di un lago, perdersi nelle luci fasulle e piuttosto melanconiche del luna-park, che confondono le cose invece di illuminarle, e – dice la poesia – «evitano la sagoma beffarda / di dove saremmo se fossimo qui». La figura o profilo dell’io non solo subisce una dissipazione grammaticale in noi, ma è addirittura evitata, assente, manca (e se ci fosse, poi, sarebbe comunque «beffarda»).

Il testo continua con un «cammino troppo stretto» e figure davvero da luna-park, «un bruttone grande e grosso», una ridicola «ascia di platino marcata Excalibur». Ci troviamo in una situazione buffa, certo, fra trovarobato e iperbole (il «platino»…), ma si tratta anche di un contesto fortemente descrittivo – nel suo paradosso – della realtà più reale, più brutale, quella che banalmente fa dire (e la poesia non si sottrae a questa constatazione) che siamo di fronte «soltanto a giungle».

E di séguito viene la dichiarazione (definizione?) forse più magnetica/scultorea dell’intera poesia di John Ashbery: nell’immagine del disagio provato dal protagonista, che si sente come se qualcuno gli avesse «appena portato un’equazione», qualcosa di incontrovertibile e allo stesso tempo incomprensibile: proprio come la realtà, il circo, il luna-park, la giungla e, forse, esattamente la poesia. Qualcosa che poi in qualche modo si desidera «che continui», ma «senza / che nessuno venga leso», e con la volontà precisa che l’incerto, l’opaco, il fedele al reale proprio perché umbratile, riprenda, continui: è un «rimescolio» (shuffling in inglese), che si desidera continui «fra me e il mio lato della notte». Fra il buio delle cose e quello di un io che – replicato convesso nello specchio – sa e non sa, vuole e non vuole nominarsi, nominare.

L’ossessione di nominazione, di accumulo di dettagli (che per contrasto dissipano il paesaggio) tiene e domina il campo della scrittura fittamente elencativa di Albrecht Dürer, che nei primi anni del Cinquecento viaggia nei Paesi Bassi, e tiene un diario. Diario che torna, stravolto, in un testo che appunto si intitola Camera di Albrecht, che ho scritto nel 2008 e che nel 2009 è stato tra i vincitori del Premio Antonio Delfini. Esce in un libro, In rebus, per la casa editrice Zona. Da In rebus leggo appunto tre testi di Camera di Albrecht, che nel segno dei due nomi fatti (Ashbery e precisamente Dürer) vorrei includere nello stemma molteplice dell’accumulo, dell’ossessione di accumulo, della conseguente e proprio paradossale sdefinizione, e infine – come è ovvio per ogni Wunderkammer – della melanconia.