Archivio mensile:Agosto 2009

(R)eplica: “Lost and found”

1

non c’è niente di ‘normativo’ o autoritario nel chiedere attenzione per alcuni linguaggi, niente di prescrittivo. niente di insensato nel fare uso di più linee di ricerca. di sperimentazione. (attestate o meno, frequentate o meno).

in certi casi si tratta di linguaggi o direzioni o fronti semplicemente avviati dalle avanguardie. e solidi ormai in lingue e culture. (specie poi nell’immaginario visivo).

Marcel Duchamp, circa cento anni or sono, non ha fatto – in qualche modo – che dare statuto di “opera” e “iterazione” a quella chiarissima imprevedibilità dell’oggetto estetico che la stessa nascita della fotografia aveva – a sua volta addirittura un secolo prima! – materiato in meccanismo. (la nascita di una tecnica attraverso cui il mondo si cattura da sé, ridimensionando il ruolo del gesto intenzionante dell’artista, significherà pure qualcosa. sarà pure segno di qualcosa il fatto che il 1839 dista meno di cinquant’anni dalla terza Critica kantiana).

si intenda “oggetto estetico” come oggetto attivante il gioco di senso-non-senso che è di tutte le percezioni. (non tutto è “estetico” – in questo senso. ma: la fotografia dimostra [= nasce dal fatto] che la sensibilità dell’anthropos, a partire da un dato intreccio di momenti della sua storia, ha iniziato a essere virata verso una quantità prima impensabile di luoghi e oggetti. il “bello” si è disseminato; è diventato una possibilità fotografata, una differenza ormai visibile, come un cursore spostato ovunque: il telemetro dell’obiettivo, il quadrato di legno della ’scena’ da fotografare).

(questo ha a che vedere con la rivoluzione industriale, ovviamente: ma non ne è soltanto e meccanicamente “conseguenza”). (ogni modificazione di linguaggi e percezione retroagisce sulle culture umane, che a loro volta ricodificano e fabbricano stimoli di risposta).

tutto nei laboratori dei primi fotografi era utensile, strumento, coercizione, legamento, vincolo, scenografia, trompe-l’oeil, funzione e fissatore, … poggiatesta, reggibraccia, poltrone, finte colonne su cui inchiodare il corpo intero … tutto per alleviare e consentire l’immobilità che i lunghissimi tempi di posa chiedevano ai fotografati.

MA: questa immobilità a volte non funzionava, movimenti impercettibili creavano sfocature, intere sessioni di posa risultavano diversissime dalle pur millimetricamente calcolate intenzioni dell’”artista”. ebbene: questo non significa(va) immagini “brutte”. poteva accadere il contrario.

proprio la cattura del possibile, del variante, del “non umanamente intenzionato”, poteva (non era prescrittivo: NON “doveva”) produrre passaggio di senso. bellezza, per dire semplicemente.

[la fotografia, come mezzo, in generale, è questa possibilità, afferrata, parlante, e precipitata in tecnica: in meccanismo. è la filosofia fatta non più dall’uomo ma dalla trasparenza, dalle lenti, dalle deviazioni che questo ha inventato]

[in ciò, il cinema è perfino un passo a ritroso (può esserlo). è il colpo di frusta, all’indietro, a rientrare, dato dal tempo sul meccanismo. il meccanismo fotografico è intemporale, dissipativo, dissemina immagini, alla lettera: le sparpaglia: ovunque. il cinema le mette in riga, in fila, gerarchizza, impone regia, montaggio, storia, plot, linea, sequenza: racconto. un prima e un dopo. ossia (anche positivamente) taglia i rami del possibile. potatura a volte benefica. ]

2

concordo con quanto scrive John Shapter in Minimalist Concrete Poetry. difficile non credere nell’esistenza dei found objects. o: sought (poems, prose, visual poems, eccetera), come direbbe KSM.

difficile, anche, pensare che il caso voglia dirsi (o debba o possa esser detto da qualcuno) prescrittivo. ognuno può scrivere come vuole, e inserirsi o meno in una tradizione o in più tradizioni. non mi riesce di capire dove sia il problema, eppure sembra che in alcuni contesti (insisto nel segnalare quello italiano) il minimo semplice riferimento – sia discontinuo sia continuo – a codici e linguaggi non lineari – perfettamente a loro agio e perfino debordanti in tante forme di comunicazione anche italiane – debba essere sospettato e disamato.

pazienza. non si può voler bene a tutti né da tutti venir amati. esistono diverse decine di migliaia di siti e gallerie e riviste e blog, e scrittori e artisti, forse centinaia di migliaia, che fanno riferimento a quelle tradizioni, in quelle si inseriscono, e di fronte a opere secondo quei criteri prodotte suscitano e ricevono e scambiano reazioni di dialogo, di interesse, di legame. nelle comunità umane, prima ancora che in quelle artistiche, succede così.

di fronte a una poesia visiva, o concreta, o a una narrazione o poesia html come quelle di Young-Hae Chang, è lecito e francamente ben prevedibile l’affermazione “è bella”.

nessuno impone a nessuno alcune vie. ma, siccome esistono, qualcuno le percorre. e sa e vede di non essere solo.

inoltre.

come la fotografia quasi 170 anni fa ha segnalato al mondo, attraverso il mondo stesso, che il mondo usciva dall’inquadratura, altrettanto ora la non-struttura delle connessioni web, la rete, attraverso centinaia di migliaia di siti e gallerie e blog, segnala al mondo attraverso il mondo stesso che i linguaggi e i segni e gli spazi e codici con cui gli artisti e le persone (le più semplici) si scambiano messaggi e vita e senso escono [possono uscire] dai codici lineari, escono dall’allineamento per svilupparsi in forme che possono anche essere lineari. ma che non si sentono in dovere di sottostare a questa (né ad altra, quale che sia) prescrizione.

3.

la scrittura di poesia in Italia può tenere o non tenere conto di tutto questo. fatto sta, le cose hanno interessanti vettori di cambiamento, anche perché la precedente fase e frase muterà: “la scrittura di poesia in Italia”, nell’arco di qualche generazione (sempre che resti sano il pianeta Terra, malconcio come lo vediamo) non significherà moltissimo.

ma anche questa è illazione. l’invito è a godere dei codici e della loro molteplicità e ricchezza (senza lasciarsi spaventare dalla loro quantità).

in hoc signo thrill

nota di maggio 2008:

mi mandano un comunicato stampa su un “romanzo-thriller sul giornalismo italiano”.

l’unica parola per me interessante in tale indicazione è “sul”.

C. Mehrl Bennett’s “WHAT IT SAYS”

WHAT IT SAYS

Available as a download or as a printed book from
http://www.lulu.com/content/paperback-book/what-it-says/7447040

C. Mehrl Bennett‘s new book of text poetry was created using an
unusual process, and the results are stunning. She took words and
phrases from her large body of visual poetry and elaborated them into
a work which can be read as individual poems, or as a single long
poem. In this respect alone, her book is uniquely successful, but in
addition her poetry has a minimalist lyricism that is quite
remarkable.

organi del gli del riequilibrano

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pace, felicità, benessere, yog sothoth

(R)eplica: “nessun ruolo”

in occidente il tempo storico è ora di distruzione senza residui del tempo individuale. ogni giorno si consuma l’incendio integrale delle energie fisiche e così mentali dei lavoratori. chi lavora non può più in nessun modo accedere seriamente e rigorosamente al ruolo di intellettuale. chi ha conosciuto un simile ruolo in periodi più fortunati, retrocede ora metro a metro perdendo margine, pagine, nozioni e alfabeto.

il cosiddetto analfabetismo di ritorno, che allegri sociologi illustrano dai grafici fluorescenti nelle ore brillanti delle tv, riguarda in definitiva tutti i parlanti.

in meno di cento anni si è rovesciato il discorso della Room of one’s own della Woolf.

precisamente a chi lavora sono sottratte indipendenza e libertà, dunque stanza nella scrittura.

è la chiarissima osservazione di Debord nel Panegirico: «ormai la schiavitù vuole realmente essere amata per se stessa» (non in vista di qualcos’altro). la diagnosi situazionista sulla società non registra aggiornamenti degni di nota.

la scrittura o è agìta da chi sia provvisto di strepitose garanzie, o costa decisamente sangue/lacrime, o più facilmente non ha luogo affatto. (e: la nozione di “poeta operaio” nemmeno è più etichetta derisoria). fiumi interi, una volta almeno sotterranei, sembrano destinati a meno che polvere. requiescant. nulla di nuovo: è plausibile perfino pensare immorale la permanenza di una ‘intellettualità’ dove un intero pianeta di suicidi tollera e agisce il massacro di massa, il declino dell’ecosistema, la guerra perpetua.

la disgregazione di uno o molti sistemi letterari non è – rispetto ad altro – il male.

questa non è posizione nichilista, queste sono parole scritte in piedi negli spazi non garantiti del lavoro non letterario. che lo stesso lavoro letterario, ‘intellettuale’, abbia perso garanzie è un’aggiunta poco interessante. dovevamo pensarci prima, adesso non si salva quasi più nessuno. (chi meriterebbe salvezza? per quali azioni?)

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[testo già comparso in rivista e qui su slowforward.
riproposto stavolta senza annotazioni aggiunte]