Archivi giornalieri: 24 Marzo 2010

(replica) – Su Jukka-Pekka Kervinen

ripropongo qui un saggio sul lavoro di J.-P. Kervinen uscito su gammm tempo fa

1.

È significativo il nickname che Jukka-Pekka Kervinen usa nel blog http://selfsimilarwriting.blogspot.com/: asemic. Il sottotitolo del blog è “asemic texts in fractal dimensions”.

“Asemic” (in dimensioni di moltiplicazione indefinita: frattali) è un termine che positivamente sintetizza un buon numero delle strade stilistiche che l’artista ha intrapreso e organizza e costruisce/disfa: un percorso asemico, prima che asemantico. Attraverso accumuli orientati di ’soluzioni’, demolisce e complica e dunque rimette in gioco la stessa più ampia categoria del ‘risolvere’.

(Non troppo diversa è la prassi di accostamento e accumulo di variabili seguita da Jim Leftwich, che non a caso ha fittamente collaborato con Kervinen: cfr. http://telephonepoles.blogspot.com/, http://jimleftwichtextimagepoem.blogspot.com/ e i vari link legati).

I testi ‘quasi’ intraducibili di Kervinen raccolti in ow oom [pdf 64 Kb] per gammm vanno in questa direzione. In ow oom le lacune suggeriscono e ritraggono senso. Spostano e deviano e dislocano e slogano segni alfabetici e nessi semantici sulla pagina ogni volta un istante prima del riconoscimento, generando in questo modo molte false/possibili tracce, in accumulo così fitto da portare a quel conclusivo effetto-eco da “nessuna traccia” (e “nessun segno”, asemìa) che persuade il lettore ad affinare la ricerca, a ricostruire/tentare e sciogliere daccapo i legami spezzati.

Molte frasi e segmenti di senso sono ricostruibili colmando (o sentendo di dover colmare) le lacune, i tratti bianchi, le ambiguità, le sospensioni e anfibologie. Inoltre – elemento non secondario – proprio quell’eco finale vuota sottintende la necessità di una indagine non superficiale sulle più ampie promesse e sugli irraggiamenti di significato che una prassi asemica paradossalmente innesca, può innescare.

2.

A chi visiti le numerosissime opere-blog di Kervinen (spesso e significativamente nate senza intenzione di trasformarsi in ‘libro’: veri oggetti elettronici dunque) appare chiaro come si generi una sorta di energia complessiva dalle sue strutture e sculture – risultante da un poliedro di linee e forze date da immagini videopoemi testi sovrapposizioni interazioni e collaborazioni con altri autori.

Questo, di fatto, non avviene in virtù della singola pagina o del singolo lavoro grafico, ma direi all’interno della prassi ampia, del ventaglio aperto di tutte le sue operazioni, nell’accumulo parossistico delle stesse, in innumerevoli post, anche solo grafici o con labili tracce alfabetiche (cfr. http://codes-writing.blogspot.com/).

E il carattere del lavoro complessivo si rintraccia a sua volta in singoli esperimenti.

Pensiamo ai monumentali blocchi di sequenze coese in http://tc44.livejournal.com/: ci si rende conto che nessuna competenza linguistica umana potrebbe tener dietro alla piramide di rapporti aggettivali e nominali che lì viene attivata. Dopo due-tre righe fitte di nomi che fungono da apposizioni di altri nomi in sequenza interminabile, il filo è perso. Il dato e dado “asemico” è lanciato: le sue facce si moltiplicano, il poliedro tende alla sfera.

Anche questo è un modo di fare scrittura – e più in generale arte – installativa. Il lavoro di Kervinen dimostra di poter essere – in definitiva ed essenzialmente – VISTO. Sondato, scorso, non ‘letto’, non linearmente scansionato. (Cfr: http://nonlinearpoetry.blogspot.com/: “bifurcations, state machines and nonlinear dynamics”).

Il discorso installativo (non sempre: ma in alcuni casi) letteralmente disintegra e disperde attese semplificate e sguardo, aggredisce le decodifiche facili man mano che queste si tendono sulla pagina, e così obbliga il lettore a riletture e diversioni, a una filologia accanita nell’invenzione/ritrovamento di nessi semantici. (Che non ‘mancano’: piuttosto, sono esplosi in latenze, moltiplicati in ’segni meno’, negazioni).

Sfido chiunque a rimanere legato a un’idea di lettura lineare di questi blocchi, di queste vere e proprie sculture nominali.

Visione, voce, dovere. Il TIRESIA di Giuliano Mesa

La Camera verde pubblica Tiresia, di Giuliano Mesa, in un’edizione in cui il testo italiano è accompagnato dalle traduzioni in inglese, francese, tedesco e spagnolo; dalle opere visive di Matias Guerra; e da un cd in cui Mesa legge non il solo poemetto ma anche una serie di altri testi precedentemente pubblicati.

Tiresia è opera uscita in riviste più volte, e presentata in festival in Italia e all’estero. Questo libro, multilingue, costituisce così un’edizione di riferimento.

*

1.

Il primo verso del poema dedicato all’indovino cieco inizia con «Vedi», non per paradosso. L’indovino cieco sa, vede e di fatto intende meglio che attraverso una percezione puramente ‘retinica’. La sua è conoscenza del male della città: «La città è malata» (Antigone).

I sovrani sono cause o concause del guasto, e hanno logicamente in odio la verità. Così l’esortazione di Tiresia cieco allo sguardo diretto è senza mezzi termini anche un incitamento politico – a difesa della polis – alla voce: «tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno» (ultimo verso del secondo testo). Riferire (dire + ferire ancora): vedere/dire o vedere=dire: un verbevoir che Emilio Villa avrebbe salutato con favore.

2.

Il poemetto procede per brani intitolati oracoli e riflessi. Gli oracoli sono cinque: “ornitomanzia”, “piromanzia”, “iatromanzia”, “oniromanzia”, “necromanzia”. Vi si affrontano eventi come la frana in una discarica di Manila; l’incendio di una fabbrica di bambole a Bangkok dove ragazzine lavorano in stato di schiavitù; gli esperimenti con materiali radioattivi svolti su civili ignari; l’espianto di organi dai bambini; e il tema dei campi di morte, delle fosse comuni.

Non si ‘divina’ nulla ‘attraverso’ tali ‘strumenti’. Perché strumenti non sono; non riportano un futuro; invadono semmai in pieno il presente e il passato, e la parola. Sono i contenuti della visione. Il cieco Tiresia non preconizza, testimonia. L’ornitomanzia fa leggere – nel volo degli uccelli affamati di spazzatura e di cibo, che devastano una baraccopoli e aggrediscono gli abitanti a loro volta travolti da una frana – il risvolto della società dello spreco. Può esistere scialo di ricchezze solo perché e in quanto esistono milioni di poveri. Attivamente il nostro stile di vita fabbrica la discarica di Manila. Siamo noi a generare la devastazione. È la nostra vita – “vedi” – quella che determina questo presente.

«Prova a guardare, prova a coprirti gli occhi» (conclusione del primo oracolo) significa allora: fa’ un tentativo, osserva, e – poi – prova a coprirti gli occhi, se ne sei capace.

3.

Pensiamo a un altro Tiresia, quello di Eliot. L’epigrafe da Petronio che apre La terra desolata dice: «Del resto la Sibilla, a Cuma, l’ho vista anch’io coi miei occhi pendere dentro un’ampolla, e quando i fanciulli le chiedevano: “Sibilla, che vuoi?”, lei rispondeva: “Voglio morire”».

I fanciulli scherniscono Sibilla, così come – sulla scena del poema eliotiano – i vari borghesi sfaccendati, o Mr. Eugenides e le dattilografe e le sweet ladies che vi compaiono scherniscono l’occidente che si disfa e rovina. Ma è un ghigno amaro quello che ne viene, e tragico. Sibilla, veggente, vuole davvero la propria morte, di fronte al disastro. Il poeta-Sibilla-Tiresia, affannato e vecchio, cieco distrutto ma vedente, vuole – vorrebbe – attivamente scomparire, morire, non per estetismo ma materialmente. Non tollera la visione, come la vita, come la voce. Questo, in Eliot.

Il testo di Mesa – al contrario – capovolge ciò che comunque è svantaggio, «discapito» indesiderato, in segno etico, positivo, in dovere di visione/voce come vita. In responsabilità, cura: impegno. (Per quanto arduo).

Si diceva che la prima parola di Tiresia è «Vedi». Non è esatto.

A specchio e rovescio della Sibilla eliotiana, che vuole morire, la primissima riga che si incontra aprendo il libro, l’epigrafe del poemetto di Mesa, recita: «Devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapito». La prima parola del Tiresia è dunque «Devi», anagramma di «Vedi».

*

Articolo pubblicato con il titolo Le cinque tragedie previste dal Tiresia di Giuliano Mesa in «il manifesto», 12 ott. 2008, p.14.

(La presente versione è riveduta. E anticipa un intervento più ampio in uscita online)

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per contattare la Camera verde:

Via Giovanni Miani, 20 – 00154 Roma
tel. 340-5263877
e-mail: lacameraverde @ tiscali . it

(replica) – jugendkampf [ à rome … ]

11-11-08_1035ctaluni giovani autori giovanissimi o poco molto giovani anche addirittura più giovani di altri giovani autori che a circa 40-50 anni giovanilmente punteggiano gli eccetera dei critici, si domandano con una giovane ingenuità come mai la poesia giovane non vende come mai c’è la fame nel mondo come mai c’è la deflazione.

nel rimario youtube: Mao, l’insalata nell’orto, Pasolini, Ridolini.

in certi casi nemmeno la poesia vecchia vende. la “maggiore”. come la maggiorana. anzi meno. minorata, la impilano in cubi di plastica a Rimini. finisce nei remainders quando ha fortuna. anche lì del resto non vende.

in altri deplorati momenti scuoiano gli orsi per farne coprimamme. o li tengono in vita per 20 anni per spremerne la bile. gli mozzano le unghie perché non si suicidino.

i detenuti cinesi, quasi ammazzati, fanno da banche di organi per gli occidentali. svelti svelti, gli esecutori li addormentano e li svuotano di fegato, cornee, cuore, milza, reni, tutto quello che serve. tumulano il guscio, la pelle, niente.

il treno slitta sul sangue. gli entristi, denominali, entrano. fumo dei Lumière. ecco: è in stazione.

Roma novant’anni prima. intanto gli schnauzer sono cresciuti.

la luna consiglia: letture amene, euclorina, fanghi, poesia aggettivata, sindaci futuristi.

(replica) – Testi installativi

Ci si trova sempre a dovere ma in fondo anche a volere (ri)definire e (ri)dire cosa si può intendere per testo installativo.

Un testo che non chieda necessariamente una lettura lineare. Un testo in cui l’impatto visivo configura già un oggetto estetico verso cui il lettore può dirigere uno sguardo non necessariamente analitico, geometrizzante, decrittante. Un testo che può indurre analisi e esplorazione minuta e che tuttavia persuade anche prima che questa si compia. Eccetera.

Più delle parole valgono gli esempi. Varie volte ho fatto quello de Il dramma della vita, di Valère Novarina, tradotto da Andrea Raos e uscito prima in Nazione indiana e poi in gammm. Qui il testo perfettamente leggibile eccede — per accumulo e ossessione elencativa felicissima quanto spiazzante e sfiancante — le possibilità e qualsiasi buona volontà di un classico ‘lettore lineare’, di ogni lettura sequenziale.

Un altro esempio potrebbe essere l’anonimo Abacuz pubblicato in marzo su http://hotelstendhal.blogsome.com: clic su http://www.box.net/shared/ohduc7zh3q. Ovviamente il dato installativo-visivo è totalizzante, in questo caso. E, prima ancora, spicca in primo piano (escludendo altri piani) il fatto che il meccanismo in gioco sia puramente ottico, ininterpretabile: accumulo da vedere, installazione senza alternative. O meglio: installazione dell’idea stessa di installazione.

Infine, si può pensare al “solid language” di Veil, di Charles Bernstein, uscito nel 1976 e leggibile online qui: http://epc.buffalo.edu/authors/bernstein/books/veil/index.html (nonché acquistabile come libro da Xexoxial Editions a questo indirizzo: http://xexoxial.org/is/veil/by/charles_bernstein)

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bernstein_veil

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Taluni schiarimenti [rinvio di] (R)

Spesso si dice o sento dire (ovviamente “nel guscio chiuso-costante delle allucinazioni autoindotte” di cui soffro, sibilerebbero gli antifan della scrittura di ricerca) che la scrittura di ricerca (appunto) è

principalmente vòlta a un’attenzione al linguaggio

Ebbè. Alzo un cartello: “Qui si basisce”.

Già. Perché, con subitanea chute di tutto il possibile, a tanto squillo araldico sonato da voci critiche anche solide o solidificàntisi, sorge dubium tosto:

se uno che parla
ossia usa la lingua per parlare
non ha attenzione al linguaggio
a che cosa ha attenzione?

[varianti varie: dovrebbe avere, avrebbe, avrà]

E, in subordine:

Cosa mai diamine ha a che fare una scrittura come quella asemantica di Accame o come quella iperlimpida di Tarkos o di Börjel o di Frisch o di Isgrò o di Haack o di Kunz o di Tao Lin con quella sorta di compulsiossessione “per il linguaggio” [complicaaato, sì; e: bruuutto, sì] che a detta dei deTTrattori convulsiverebbe le giornate e le cortecce dei redattori di gammm.it ?   (gammm slinkato qui: ché se ne ha abbastanza! su i forconi! basta coi gammmi! vogliono il linguaggio! [vox populi] basta col linguaggio! e via gesticolare)

MAH …   [resto col dubium]

Dovendo fuggire le torce vicinàntisi, chiudo qui il post, stoppo, scappo.

replica: Prosa in prosa e gammm.org in (non)rapporto con le avanguardie storiche

La componente di non-assertività della scrittura di ricerca che GAMMM persegue, e che il libro collettivo Prosa in prosa ha tra i suoi vari possibili fondamenti, è cruciale per marcare una distanza tra tali o analoghe esperienze di scrittura (recenti) e quelle di alcune avanguardie storiche – specie in riferimento al futurismo.

* * *

A.

Ma altri elementi possono essere elencati, e confini tracciati, anche attraverso alcune coppie oppositive: per GAMMM si parla di

  1. “Installazione” piuttosto che “performance”. (Il testo non viene – o non viene necessariamente – performato, sottolineato, convocato nell’agorà, esibito; viene semmai – al più – eseguito; non chiede dichter/poeta-dicitore “dittante”; a volte non chiede nemmeno un lettore particolarmente coinvolto, non vuole uno spettatore necessariamente-fittamente preso, o provocato, o convocato; anche considerando che, spesso, si ha in campo del materiale linguistico che non è pensato per una “lettura” lineare seriale ma per una “visione” anche superficiale e “a blocchi”, o per una lettura distratta, che salta, ecc.)
  2. Conseguenza: gradazioni di dissolvimento dell’autore=lettore, piuttosto che sua esposizione/esibizione (sia o meno spettacolare). (Questa identità è addirittura uno dei punti di fondazione del sito e ensemble di autori: si veda uno dei post con cui si inaugurava l’esperienza).
  3. Sequenza ed elenco piuttosto che narrazione; piuttosto che lirica; piuttosto che struttura (sia versale, poematica, o ragionativa, o appunto narrativa). Lo stesso paroliberismo futurista “impone” una libertà. L’elenco – freddo – ne è invece l’esatto rovescio: implica un vincolo, all’interno del quale si esperisce l’uscita da tutti i vincoli. (Manifestandosi cioè una sostanza aleatoria, volentieri, dei e dai contenuti dell’elenco).
  4. Griglia procedurale (fissa) piuttosto che dispersione/diffusione o distruzione delle forme. La procedura sostituisce le forme. Le istruzioni e gli elementi neutri annullano l’ego in tutti i modi, per altro. E, insieme, annullano il quantum di “garanzia” di “arte” (o “senso”) che l’ego del dichter volentieri emette (massime nel futurismo) a sigillo dell’opera.
  5. Concetto piuttosto che testo. Un’idea o sequenza di idee sostituisce l’“espressione”.
  6. Materiale solitamente – come detto – neutro (senza i marcatori del “poetico”) piuttosto che strutturato e connotato. Limpido, lineare, frequentemente.
  7. Freddezza gutenberghiana piuttosto che azione/agitazione teatrale e s(com)paginante.

*

B.

Se ci riflettiamo, il futurismo ha sostituito una serie di valori a un’altra serie di valori, lasciando inalterata l’assertività e il reticolo di garanzie autoriali che sottostanno all’operazione letteraria.

Ha sostituito la velocità all’indugio, l’esplosione alla suggestione, la linea stagliata alla nuance, colori e neri alle ombre, la dichiarazione alla domanda, la retorica delle maiuscole a quella delle minuscole, la grafica pubblicitaria all’ordine tipografico stabilito, il rumorismo all’onomatopea, l’umorismo alla melanconia, la frantumazione al metro, l’insistenza uninominale alla sintassi, le parole in libertà del parlato alle griglie retoriche del discorso scritto, la simultaneità alla sequenza, l’elettricità al vapore, eccetera.

Non ha – con ciò – mancato di portare nei campi delle arti alcuni elementi talvolta nuovi (velocità, maiuscole, rumore, frantumazione, chiasso) mutuati da un Ottocento iperindustrializzato ed elettrizzante che sfumava in un Novecento ancora in via di definizione.

Al contrario, gli autori di GAMMM, uscendo dalla parte opposta del tunnel (perfino post-elettronica), a chiusura di secolo e apertura di nuovo millennio, non è pensabile che intrattengano un rapporto “futuristico” con quello che – in effetti – non è nemmeno un passato prossimo ma un trapassato remoto.

Quello che soprattutto e direi felicemente a loro manca, è la “serietà” o “postura” artistica, la posa plastica, insomma, della scrittura, della dizione, e (quando càpita) della lettura in pubblico. Mancano volentieri sia il metatesto à la Tel Quel, sia il testo-testo dei vari espressionismi che fanno gongolare le analisi strutturaliste, sia l’antitesto teatrale assertivo artaudiano (sia il saggio alato-accennante di tradizione rilkiana, tanto per concludere citando campi e nomi assai differenti, ulteriori).

*

C.

La difficoltà di collocazione della “prosa in prosa” nel campo della poesia (esclùsane la presenza del verso) o nel campo della prosa, che non fa problema agli autori, fa problema invece ai critici e a vari che sono intervenuti soprattutto durante la presentazione romana del libro (febbraio 2010), perché è nel momento della lettura che la “sicurezza del segnale” testuale si sfrangia.

A un dato momento, il lettore X sentirà un cicalino di poesia dove il lettore Y avverte il battito della prosa. O viceversa.

Ci sarà dunque, nel momento della ricezione, chi percepirà netta un’attinenza alla costruzione di senso propria della poesia (sia pure in una rinnovata “poesia in prosa”), e chi percepirà un’attinenza alla prosa. Ma questo si può dire di ogni altra caratteristica di questi testi. Ci sarà chi avvertirà freddezza e chi poco sperimentalismo, chi non percepirà come sensato il gioco azzerato sulle forme, sulla metrica interna e sui suoni, e chi invece vi vedrà il nucleo del discorso.

Di tutto questo il futurismo è nemico. La natura sostanzialmente “assertiva” del futurismo – anche nelle proprie politiche di gruppo – ne fa un oggetto profondamente adatto all’univocità sia nella posizione e rappresentazione di sé (dei suoi testi) davanti al pubblico, sia nella richiesta di feedback, sia nella reazione – appunto – del lettore, sia nella “programmaticità” e non troppo alta problematicità delle poetiche.

Difficile pensare a un Marinetti che si interroga sulla natura di poesia del suo testo. Per lui è poesia, poesia nuova, l’unica poesia che si possa fare, e come tale la propone al pubblico, che la percepisce (e la accoglie o rifiuta) come tale.

*

D.

Un passaggio all’analisi testuale dimostrerà, carte alla mano, che testi – per esempio – di Bortolotti e Broggi, come di ogni altro autore dell’antologia, siano totalmente incompatibili con gli esperimenti ed “eroismi” antisintattici o grafici del futurismo. Pensiamo al linguaggio totalmente asciugato e asettico di Broggi; al continuo diminuendo delle non-avventure frammentate da Bortolotti. Pensiamo, altrimenti, all’attraversamento dei generi compiuto da Raos: dalla memoria al saggio alla poesia alla recensione: tutto nel flusso unito/discontinuo – quasi mormorante – delle Lettere nere. Nessun passo e passaggio nel suo lavoro “garantisce” (autorialmente=autoritariamente) sul passo e passaggio seguente. L’iter si fabbrica di volta in volta; al lettore è chiesto di completare spazi di non detto, di accenni; non di aderire al detto.

*

E.

Nei sei autori di Prosa in prosa ci potrà talvolta essere l’emersione di un meccanismo come il googlism, infine, assai più vicino al momento aleatorio dadaista (ma meglio ancora a Burroughs, se proprio si deve trovare un riferimento puntuale) che alle accensioni futuriste. Eppure anche l’objet trouvé dadaista non è calzante. Si parla infatti di testi non “trovati” bensì “cercati”: non “found” ma “sought”

(cfr. http://gammm.files.wordpress.com/2007/02/mohammad_soughtebook.pdf).

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file pdf del presente articolo

24 marzo: botta di critica

dopo la benemerita primaverile dunque alata giornata della /

poesia, 21 marzo u.s.,

inventata non so quanto tempo fa non so da chi non so perché

MA

che ha indubitabilmente portato policromo giovamento al globo,

e sanato i conti delle collane di poesia,

oggi, 24 marzo 2010,

per ripianare il benefizio con un po’ di emicrania

DECRETO

la giornata della cattiva critica (= la mia)

dunque da adesso

ripubblico un po’ di post di critica, a valanga.

che non fa (troppo) male.

(se pure non fa bene).