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dalla madeleine curata da Francesca Vitale
(“Nuove tendenze”, ottobre 2008)
taluni giovani autori giovanissimi o poco molto giovani anche addirittura più giovani di altri giovani autori che a circa 40-50 anni giovanilmente punteggiano gli eccetera dei critici, si domandano con una giovane ingenuità come mai la poesia giovane non vende come mai c’è la fame nel mondo come mai c’è la deflazione.
nel rimario youtube: Mao, l’insalata nell’orto, Pasolini, Ridolini.
in certi casi nemmeno la poesia vecchia vende. la “maggiore”. come la maggiorana. anzi meno. minorata, la impilano in cubi di plastica a Rimini. finisce nei remainders quando ha fortuna. anche lì del resto non vende.
in altri deplorati momenti scuoiano gli orsi per farne coprimamme. o li tengono in vita per 20 anni per spremerne la bile. gli mozzano le unghie perché non si suicidino.
i detenuti cinesi, quasi ammazzati, fanno da banche di organi per gli occidentali. svelti svelti, gli esecutori li addormentano e li svuotano di fegato, cornee, cuore, milza, reni, tutto quello che serve. tumulano il guscio, la pelle, niente.
il treno slitta sul sangue. gli entristi, denominali, entrano. fumo dei Lumière. ecco: è in stazione.
Roma novant’anni prima. intanto gli schnauzer sono cresciuti.
la luna consiglia: letture amene, euclorina, fanghi, poesia aggettivata, sindaci futuristi.
Ci si trova sempre a dovere ma in fondo anche a volere (ri)definire e (ri)dire cosa si può intendere per testo installativo.
Un testo che non chieda necessariamente una lettura lineare. Un testo in cui l’impatto visivo configura già un oggetto estetico verso cui il lettore può dirigere uno sguardo non necessariamente analitico, geometrizzante, decrittante. Un testo che può indurre analisi e esplorazione minuta e che tuttavia persuade anche prima che questa si compia. Eccetera.
Più delle parole valgono gli esempi. Varie volte ho fatto quello de Il dramma della vita, di Valère Novarina, tradotto da Andrea Raos e uscito prima in Nazione indiana e poi in gammm. Qui il testo perfettamente leggibile eccede — per accumulo e ossessione elencativa felicissima quanto spiazzante e sfiancante — le possibilità e qualsiasi buona volontà di un classico ‘lettore lineare’, di ogni lettura sequenziale.
Un altro esempio potrebbe essere l’anonimo Abacuz pubblicato in marzo su http://hotelstendhal.blogsome.com: clic su http://www.box.net/shared/ohduc7zh3q. Ovviamente il dato installativo-visivo è totalizzante, in questo caso. E, prima ancora, spicca in primo piano (escludendo altri piani) il fatto che il meccanismo in gioco sia puramente ottico, ininterpretabile: accumulo da vedere, installazione senza alternative. O meglio: installazione dell’idea stessa di installazione.
Infine, si può pensare al “solid language” di Veil, di Charles Bernstein, uscito nel 1976 e leggibile online qui: http://epc.buffalo.edu/authors/bernstein/books/veil/index.html (nonché acquistabile come libro da Xexoxial Editions a questo indirizzo: http://xexoxial.org/is/veil/by/charles_bernstein)
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Spesso si dice o sento dire (ovviamente “nel guscio chiuso-costante delle allucinazioni autoindotte” di cui soffro, sibilerebbero gli antifan della scrittura di ricerca) che la scrittura di ricerca (appunto) è
Ebbè. Alzo un cartello: “Qui si basisce”.
Già. Perché, con subitanea chute di tutto il possibile, a tanto squillo araldico sonato da voci critiche anche solide o solidificàntisi, sorge dubium tosto:
[varianti varie: dovrebbe avere, avrebbe, avrà]
E, in subordine:
Cosa mai diamine ha a che fare una scrittura come quella asemantica di Accame o come quella iperlimpida di Tarkos o di Börjel o di Frisch o di Isgrò o di Haack o di Kunz o di Tao Lin con quella sorta di compulsiossessione “per il linguaggio” [complicaaato, sì; e: bruuutto, sì] che a detta dei deTTrattori convulsiverebbe le giornate e le cortecce dei redattori di gammm.it ? (gammm slinkato qui: ché se ne ha abbastanza! su i forconi! basta coi gammmi! vogliono il linguaggio! [vox populi] basta col linguaggio! e via gesticolare)
MAH … [resto col dubium]
Dovendo fuggire le torce vicinàntisi, chiudo qui il post, stoppo, scappo.
La componente di non-assertività della scrittura di ricerca che GAMMM persegue, e che il libro collettivo Prosa in prosa ha tra i suoi vari possibili fondamenti, è cruciale per marcare una distanza tra tali o analoghe esperienze di scrittura (recenti) e quelle di alcune avanguardie storiche – specie in riferimento al futurismo.
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A.
Ma altri elementi possono essere elencati, e confini tracciati, anche attraverso alcune coppie oppositive: per GAMMM si parla di
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B.
Se ci riflettiamo, il futurismo ha sostituito una serie di valori a un’altra serie di valori, lasciando inalterata l’assertività e il reticolo di garanzie autoriali che sottostanno all’operazione letteraria.
Ha sostituito la velocità all’indugio, l’esplosione alla suggestione, la linea stagliata alla nuance, colori e neri alle ombre, la dichiarazione alla domanda, la retorica delle maiuscole a quella delle minuscole, la grafica pubblicitaria all’ordine tipografico stabilito, il rumorismo all’onomatopea, l’umorismo alla melanconia, la frantumazione al metro, l’insistenza uninominale alla sintassi, le parole in libertà del parlato alle griglie retoriche del discorso scritto, la simultaneità alla sequenza, l’elettricità al vapore, eccetera.
Non ha – con ciò – mancato di portare nei campi delle arti alcuni elementi talvolta nuovi (velocità, maiuscole, rumore, frantumazione, chiasso) mutuati da un Ottocento iperindustrializzato ed elettrizzante che sfumava in un Novecento ancora in via di definizione.
Al contrario, gli autori di GAMMM, uscendo dalla parte opposta del tunnel (perfino post-elettronica), a chiusura di secolo e apertura di nuovo millennio, non è pensabile che intrattengano un rapporto “futuristico” con quello che – in effetti – non è nemmeno un passato prossimo ma un trapassato remoto.
Quello che soprattutto e direi felicemente a loro manca, è la “serietà” o “postura” artistica, la posa plastica, insomma, della scrittura, della dizione, e (quando càpita) della lettura in pubblico. Mancano volentieri sia il metatesto à la Tel Quel, sia il testo-testo dei vari espressionismi che fanno gongolare le analisi strutturaliste, sia l’antitesto teatrale assertivo artaudiano (sia il saggio alato-accennante di tradizione rilkiana, tanto per concludere citando campi e nomi assai differenti, ulteriori).
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C.
La difficoltà di collocazione della “prosa in prosa” nel campo della poesia (esclùsane la presenza del verso) o nel campo della prosa, che non fa problema agli autori, fa problema invece ai critici e a vari che sono intervenuti soprattutto durante la presentazione romana del libro (febbraio 2010), perché è nel momento della lettura che la “sicurezza del segnale” testuale si sfrangia.
A un dato momento, il lettore X sentirà un cicalino di poesia dove il lettore Y avverte il battito della prosa. O viceversa.
Ci sarà dunque, nel momento della ricezione, chi percepirà netta un’attinenza alla costruzione di senso propria della poesia (sia pure in una rinnovata “poesia in prosa”), e chi percepirà un’attinenza alla prosa. Ma questo si può dire di ogni altra caratteristica di questi testi. Ci sarà chi avvertirà freddezza e chi poco sperimentalismo, chi non percepirà come sensato il gioco azzerato sulle forme, sulla metrica interna e sui suoni, e chi invece vi vedrà il nucleo del discorso.
Di tutto questo il futurismo è nemico. La natura sostanzialmente “assertiva” del futurismo – anche nelle proprie politiche di gruppo – ne fa un oggetto profondamente adatto all’univocità sia nella posizione e rappresentazione di sé (dei suoi testi) davanti al pubblico, sia nella richiesta di feedback, sia nella reazione – appunto – del lettore, sia nella “programmaticità” e non troppo alta problematicità delle poetiche.
Difficile pensare a un Marinetti che si interroga sulla natura di poesia del suo testo. Per lui è poesia, poesia nuova, l’unica poesia che si possa fare, e come tale la propone al pubblico, che la percepisce (e la accoglie o rifiuta) come tale.
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D.
Un passaggio all’analisi testuale dimostrerà, carte alla mano, che testi – per esempio – di Bortolotti e Broggi, come di ogni altro autore dell’antologia, siano totalmente incompatibili con gli esperimenti ed “eroismi” antisintattici o grafici del futurismo. Pensiamo al linguaggio totalmente asciugato e asettico di Broggi; al continuo diminuendo delle non-avventure frammentate da Bortolotti. Pensiamo, altrimenti, all’attraversamento dei generi compiuto da Raos: dalla memoria al saggio alla poesia alla recensione: tutto nel flusso unito/discontinuo – quasi mormorante – delle Lettere nere. Nessun passo e passaggio nel suo lavoro “garantisce” (autorialmente=autoritariamente) sul passo e passaggio seguente. L’iter si fabbrica di volta in volta; al lettore è chiesto di completare spazi di non detto, di accenni; non di aderire al detto.
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E.
Nei sei autori di Prosa in prosa ci potrà talvolta essere l’emersione di un meccanismo come il googlism, infine, assai più vicino al momento aleatorio dadaista (ma meglio ancora a Burroughs, se proprio si deve trovare un riferimento puntuale) che alle accensioni futuriste. Eppure anche l’objet trouvé dadaista non è calzante. Si parla infatti di testi non “trovati” bensì “cercati”: non “found” ma “sought”
(cfr. http://gammm.files.wordpress.com/2007/02/mohammad_soughtebook.pdf).
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segnalo, su questo numero (252, gen.-feb. 2010) de “l’immaginazione”,
una mia recensione a G.Marzaioli, Suburra (Giulio Perrone Editore)
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leggibile anche su http://giulioperroneditore.it/node/365
segnalo, su questo numero (252, gen.-feb. 2010) de “l’immaginazione”,
una mia recensione a G.Marzaioli, Suburra (Giulio Perrone Editore)
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leggibile anche su http://giulioperroneditore.it/node/365