Archivio mensile:Novembre 2010

Cotton, Tarkos : rapido appunto (ancora dialogando con Stefano)


Nei giorni passati avevo ripreso dallo scaffale, sfogliandolo e rileggendolo per frammenti, The photograph as contemporary art, di Charlotte Cotton, uscito per Thames & Hudson circa sei anni fa. È certo un libro che può esser considerato di riferimento, un testo utile – pur se confesso di aver sempre desiderato vederlo più ricco di immagini. In ogni caso offre una lodevole ricchezza, onestà critica, chiarezza espositiva. Ieri sbirciavo casualmente la vetrina di un punto Einaudi ed ecco che ho la bella sorpresa: è stato tradotto (e, forse, accresciuto, stando alla scheda online che ora scorro). Una lieta scoperta, dunque: mi ha fatto gioire ma subito riflettere. Spero utilmente. E mi spiego. Un esempio avvierà il discorso:

A pag. 70 dell’edizione T&H (ri)trovo le annotazioni a proposito delle fotografie dell’artista finlandese Katharina Bosse, dedicate ad ambienti e spazi vuoti: stanze – ci spiegano testo e didascalie  – generalmente affittate per fare sesso e/o girare film porno. Somigliano e forse anzi sono “stage sets before or after a performance”.

La loro riconnotazione, sovrascrittura, da parte del nostro sguardo, avviene dunque nella e grazie alla coscienza del fatto che sono luoghi in cui l’essenziale — crudo/crudele o meno — è temporalmente dislocato: c’è già stato o deve ancora accadere. Se in generale la fotografia è la traccia di un “è così”, particolari fotografie come queste (e molte altre foto di ambienti vuoti, certo: ma in questo caso il vuoto è caricato di un non detto erotico) addizionano un “sarà altro” o un “è stato differente”, che echeggia in qualche modo nell’osservatore. O che (meglio) sarà l’osservatore a far echeggiare nell’immagine.

Non si tratta di riconoscere — trovare familiare — collocare in una enciclopedia di luoghi e dati — una banalità d’ambientazione, mobilio sciatto, luce ambigua, un momento di attesa, ma — anche — di spingere tanto la banalità quanto l’aria atemporale nell’inconsistenza del “set” iperconnotato. Dunque nell’imprimere  attivamente con lo sguardo una sorta di spostamento — di variata percezione — di quei colori o identità e banalità, sciatteria, eccetera.

A marzo di quest’anno su gammm avevamo pubblicato (e personalmente non ricordavo, in quel momento, ossia a marzo, la Bosse) questo ebook: http://gammm.org/index.php/2010/03/23/nuovo-e-book-su-gammm-porn-without-porn, derivato da un blog che appunto è citato e linkato.

È chiaramente inutile ogni spiegazione del perché di questo accostamento.

Ma, al di là della vicinanza tra la Bosse e il blogger a cui noi scriteriati di gammm abbiamo proposto di fare un ebook, che pure è una vicinanza oggettiva (e porterebbe a riflessioni ulteriori su come e dove l’arte contemporanea e la rete si virusano a vicenda in quanto a monte ci sono contesti ancora più ampi che li includono), qual è la ragione di citare tutto ciò come addendum – parziale e rilavorabile, aggiungo – nel dialogo tra Stefano Guglielmin e il sottoscritto?

Varie ragioni:

(1) Sia pure sei anni dopo l’uscita, un libro bello come quello della Cotton viene tradotto in Italia. Questo mi sembra significativo di un allineamento tra contesti diversi che arte e fotografia (e fotografia come arte) contemporanea vivono da anni. Artisti italiani sanno (e il pubblico dell’arte italiano sa) cosa fanno gli artisti non italiani. L’editoria segue questa attenzione; e, certo, la determina, la pilota, forse, anche. (Senza complottismi. E: lo so: l’arte contemporanea sposta tali e tanti capitali, da agevolare assai tutto il meccanismo. Ma proviamo a vedere l’idea, l’impatto complessivo, che il detto “allineamento” può indurre in chi constata un disallineamento delle arti della scrittura:)

(2) Ci sono autori non italiani che non si vedono tradotti praticamente mai (o non si vedranno più) nel nostro paese. E che nei loro paesi d’origine hanno un (per niente scarso) pubblico.

(3) Qual è il “cambio di paradigma” che tali autori hanno determinato o registrano, o di cui possono essere segni, e che sarebbe bello almeno “intuire” qui da noi? Smetto di descriverlo. Si descrive da sé – alla lettura:

(4) Si prenda un libro di Noël (p.es. Estratti del corpo). Si prenda un libro di Tarkos, uno qualsiasi. La differenza è in buona parte (anche se non tutta) lì. Tra asserire contando su un piano retorico comune di condivisione delle modalità di ricezione dell’asserzione; e (sembrar?) asserire non contando ma sviluppando-svolgendo nel percorso stesso un piano di segni i cui parametri non siamo in grado di definire se non – appunto – svolgendolo (almeno per ora).

(5) È – anche – la differenza tra uno sguardo del lettore che riceve un testo (scritto secondo “enunciati che si riferiscono a pensieri già maturi in chi parla, imminenti in chi ascolta”, per citare Merleau-Ponty) e lo sguardo  del lettore che immette del tutto naturalmente e necessariamente una quantità di proprio lavoro ermeneutico dentro il testo (il quale di suo gli lancia una richiesta in tal senso).


Recensione a Massimo Gezzi, “L’attimo dopo”

Recensione a:
Massimo Gezzi, L’attimo dopo, Sossella 2009, pp. 104, euro 12.





Evento felice e non scontato per un libro di poesie: la raccolta di Massimo Gezzi, L’attimo dopo, uscita per Luca Sossella nel dicembre 2009, è giunta in meno di un anno a una meritata seconda edizione. Non è il primo libro dell’autore (nato nel 1976, assistente di Letteratura italiana a Berna): aveva pubblicato nel 2004 Il mare a destra, nella collana editoriale della rivista Atelier; e nel 2007 una sequenza di testi nel Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, a cura di F.Buffoni).

Di Gezzi si può dire – e in questo senso se ne scrive giustamente da diversi anni ormai – che nella sua generazione è tra gli autori definibili di sintassi. È cioè tra i più coscienti nella ridefinizione di un percorso lirico che passa per la strada non facile di una metrica in sostanza classica (fondata sull’endecasillabo), non nemica di attenti e non artati enjambements e spezzature, nella continuità-fluidità del discorso. Il flusso delle frasi è formato dalle o scomponibile nelle unità metriche note, in accordo con una sintassi salda che tiene la linea portante del significato senza dissipare subordinazioni, senza tentare – in questo senso – azzardi di ulteriori frantumazioni, fossero pure sotto l’ombrello non spiazzante della reticenza e dell’anacoluto.

Detto ciò, va aggiunto che, al livello delle unità superiori, ossia delle poesie, dei testi compiuti e dell’uso e modulazione che questi fanno delle caratteristiche appena elencate, esistono vari registri nel libro L’attimo dopo, ma che due sembrano tenere con maggior evidenza degli altri il campo: uno narrativo-allegorico, e uno – più indefinibile – che sembra, spiccando sempre su uno sfondo allegorico, attenuare le evidenze strette del narrato (e dell’io come asse portante) per affidarsi a una parziale indefinizione delle occasioni e situazioni di vita date.

Non sarà un mistero che chi qui scrive ha ragioni per prediligere il secondo modus. Lì dove il materiale è tutto dato ed esibito, infatti, il percorso di comprensione si fa – per il lettore – più breve e risolto e, nonostante i ritmi e il bulino modulante dell’autore, aperto, accertato, lieve. E la levità e delicatezza/leggerezza del fondo, ground, ‘pavimento’ assertivo di un testo, la sua esposizione si direbbe, la sottigliezza (non sensiblerie, sia chiaro), è un rischio testuale non solo per il passo spiccio e malaccorto del lettore di grana grossa, che va sdegnato, ma anche per quello fermo e indugiante che vorrebbe attardarsi in un labirinto o in un riquadro di ombra, di inesplicito. Nel libro tutto è (pur sapientemente) in luce.

Detto ciò, non si può ridurre a meccanismi di stile – che pure ci sono – le doti di positiva/paradossale osservazione come indefinizione (mai assoluta, e mai alonante) del paesaggio e degli eventi, che sono a mio parere le doti e la ricchezza del libro fin dal titolo. Libro che definisce una linea testuale legata al sentimento del tempo, sì, ma soprattutto all’impermanenza, allo sfaldarsi-riattestarsi delle esistenze, a «una memoria che non si sgretola», e così alle ricordanze (e ai ricordanti, sempre pure riguardanti) che fissano quelle esistenze in clic araldico, momento, gesto, anch’esso però già aggredito dal buio.

Cosa succede nell’“attimo dopo”? Il peso – fenomenologico – che la coscienza avverte, patisce e accerta, è quello delle cose, delle costrizioni, delle mancanze da cui pure nasce azione, una necessità («partire», «contare le finestre illuminate / nel buio»). Se di indefinizione nell’osservazione si tratta, è attivamente conoscitiva. Disegna ciò che prima del verso non esisteva. Il testo che apre la raccolta è, in questo, decifrabile sì nel senso dei disastri (tellurici e politici) che attraversano da sempre l’Italia, ma anche e precisamente nella direzione di una non scontata cognizione del dolore: «Poi ci fu una scossa repentina, / e i muri cominciarono a frantumarsi / e a spaventare gli insetti che ci vivevano dentro. / Non c’è più lavoro, ci dicevano / sorridendo, non ci sono più affetti / capaci di farci amare queste sedie, queste mura, / il silenzio che si ascolta parlare solo quando / percepisci il tempo scorrere, o ricordi qualcuno».

 


Marco Giovenale


ReggioFilmFestival 2010

ReggioFilmFestival 2010

9° edizione

acqua / water

Ateliersviaduegobbi3

Via dei Due Gobbi 3 – Reggio Emilia

11 – 12 – 13 novembre 2010

EAUX D’ARTIFICE

(artefatti contemporanei)

su progetto e cura di Enzo Campi

GIOV. 11 – VEN. 12 – SAB. 13 novembre

dalle 19.30 alle 23.00

PERSONALI  E INSTALLAZIONI : Continua a leggere

La Concia / fino a dicembre

la mostra
La Concia
di Giulio Marzaioli
è visitabile dal 30 ottobre al 13 novembre tutti i giorni, lunedì esclusi
dalle ore 17.00 alle ore 21.00.
presso
La Camera Verde
www.lacameraverde.com
via G. Miani 20, 20a, 20b
00154 – Roma

*

Le foto esposte e contenute nell’omonimo volume sono state scattate nel mese di luglio 2009 presso le Concerie di Fès (Marocco) e costituiscono il secondo episodio di un percorso per immagini incentrato sul tema del lavoro.

Il primo episodio è stato dedicato ai cavatori di marmo delle Alpi Apuane, la cui opera è tradotta nelle fotografie contenute nel volume cavare marmo, ancora per le edizione de La Camera Verde.

Nuova lettera, breve, a Stefano

in risposta a questa:

Caro Stefano, grazie per il tuo intervento, che punta decisamente in profondità e coglie una rete di momenti essenziali (sottotraccia nella lettera – pur lunga – che ti inviavo).
Contribuisco, a mia volta, con un elemento al disegno del sistema o quadro che con acutezza disegni, a proposito della (non indecifrabile) ‘interruzione di linea’ nella ricerca dagli anni ’60-’70 in qua: metterei nel conto degli eventi nodali le molte autodistruzioni o scomparse, inabbissamenti e morti, che troppi protagonisti di quella stagione hanno patito. Penso ai suicidi e alle morti per droga, agli infortuni, gli imprevisti. Per autori più e meno noti. Penso alla fine di tante esperienze e tanti laboratori culturali.

Penso alla scomparsa di Porta, Spatola, Reta, Vicinelli. Pensiamo all’ictus che colpì Villa (e che pure non ne abbatté l’energia). Penso allo spegnersi – assai più tardi, a “restaurazione” in pieno corso – di un fuoco inaggirabile dell’incendio di secondo Novecento: quello del linguaggio di Amelia Rosselli. Penso alla scomparsa di Ketty La Rocca. (Penso alla vita e all’indicibile di molti che poi riemersero però, per fortuna, alla fine degli anni ’90, da esperienze di tossicodipendenza durissime; ma avevano nel frattempo perso tanti e poi tanti compagni di strada, strutture, occasioni).

Penso al laboratorio segreto di tanti che Anterem ha comunque avuto il merito straordinario di sostenere nonostante e proprio per il loro essere appartati: Brandolini d’Adda, Mussio, per esempio. Due giganti, a mio parere.

Tutti questi sono stati punti spersi, dimenticati ingenerosamente spesso (quanto ha fatto Nuvolo, per esempio, per tanti, a partire da Burri! e che valore la sua opera..).
Se penso ai fotografi, poi… Basti il nome della geniale Woodman, scomparsa giovanissima…

Ma tutte queste entità non puntiformi, ma sistemi di stelle e galassie, pure, avrebbero potuto – con il flusso di opere che di fatto hanno prodotto – variare (nelle folte differenze che li separano e distanziano, certo) i punti e ponti e geografie e momenti della storia successiva. O forse no.

In ogni caso il nostro post-TelQuel non c’è stato (o non interamente, o affidato a un numero circoscritto e insufficiente di registri dello spettro modale). Mentre altrove una base era attestata, e su quella si costruiva, da noi la base franava e su un disastro generazionale iniziavano a tessere le loro vocine stridule i neolirici e neoricchi che non si accorgevano della nascita di Milano 2 accanto ai loro taccuini.

Questa la tristezza infinita che la tua, la mia, le future generazioni non smetteranno di scontare (nemmeno traducendo usque ad mortem quanto accaduto altrove: perché l’altrove tale resterà, finché una rifondazione individuale e collettiva non farà leva su quanto di buono non smette di esserci in questo paese massacrato, questa “Italia sepolta sotto la neve”, per dirla con Roversi).
Ti mando un abbraccio fraterno, e l’invito a continuare il nostro dialogo

Marco

una breve annotazione da un thread / sempre su “prosa in prosa”


una breve annotazione da un thread in NI.

il libro prosa in prosa individua e segmenta – non per exempla ma per excerpta – un modo-modus-mood o tipo possibile di esperienza letteraria (come di installazione/esecuzione in pubblico di testi e oggetti estetici composti ’anche’ di testo) (come possono essere alcuni esperimenti di m. zaffarano, p. es.).

sono testi che:

[a] sono veramente ed effettivamente prosa in prosa, non versi in prosa, non poème en prose, non prosa lirica, non narrazione, non epica, non prosa filosofica, non prosa d’arte, non prosa assertiva-artaudiana (noël), non frammenti/aforismi che segmentano un pensiero (bousquet, cioran), non voyage/onirismo (michaux) ;

[b] in ogni caso prescindono quasi completamente dal panorama letterario italiano, dove un certo tipo di sperimentazione è (1) non praticata; (2) disamata spesso dagli editori; (3) in viaggio verso la costruzione di un ’pubblico’. (tuttavia, e per fortuna, permane una tradizione o linea di prosa che potrebbe esser fatta partire o passare – ad esempio – per calvino e balestrini, come suggerisce spesso bortolotti) ;

[c] hanno riferimenti quasi imprescindibili in autori tradotti da anni e per anni da scrittori come (appunto) bortolotti, raos, inglese e zaffarano ;

[d] possono condurre (o – in altri paesi – “ri”condurre) : (1) alla post-poesie su cui da anni riflette jean-marie gleize; o (2) a quella (gleiziana) littéralité e spiazzante limpidezza che (fuori di Francia) troviamo in tao lin, ida börjel, zach schomburg (l’opposto di ogni strutturalismo); o (3) al googlism di cui (attraverso k. s. mohammad per fare un nome) si fa menzione a proposito di flarf; o (4) ad alcune linee di continuità con la language poetry statunitense (bernstein, silliman, watten, hejinian, … : si pensi al loro esperimento the grand piano); o (5) a quelle forme di testualità iperframmentata e complessa che trovano in autori giovani e rigorosi come jennifer scappettone o jon leon alcuni esempi particolarmente evidenti; o (6) a forme di ’scrittura procedurale’ (espressione di zaffarano e bortolotti, penso) – o anche ’concettuale’ – a cui si può pensare in relazione al lavoro di kenneth goldsmith ; o (7) a linee di ricerca e a strumentari vicini al cut-up ma non necessariamente implicanti google (penso a pagine di rodrigo toscano, di giles goodland, o di drew kunz); o (8) a esperienze di installazione testuale come quelle di hotel stendhal; o (9) alle apparenti (in realtà sintatticamente od otticamente ’devianti’) strutture pseudoliriche [ed esperienze visive-testuali] di autori come éric suchère o ryoko sekiguchi; o, volendo, (10) suggerire (ma solo suggerire) le derive di ibridazione di immagini, poesia visiva, e/o blocchi di testo, quasi si trattasse di flow-charts di linguaggio macchina, come può (talvolta) accadere con libri di caroline bergvall o alan sondheim.


Dalla Società Italiana delle Storiche: “Il peso delle parole”

ricevo (e volentieri pubblico):

Il peso delle parole


Da venti anni siamo impegnate nella promozione e nella valorizzazione della ricerca storica sulle donne e le relazioni di genere. Come studiose, crediamo profondamente nel valore delle parole e delle immagini, quando sanno comunicare e diffondere idee di libertà, di uguaglianza, di uscita dal pregiudizio. Conosciamo altresì, e drammaticamente, il peso enorme che parole e immagini possiedono, quando veicolano, legittimano, istituzionalizzano, stereotipi discriminatori. Per questo, ci sentiamo di esprimere tutto il nostro sdegno per le parole omofobe pronunciate ieri dal Presidente del Consiglio, nonché per la consueta e degradante immagine delle donne presente implicitamente nel suo discorso.

Rifiutiamo con forza i tentativi maldestri di giustificare affermazioni apertamente intolleranti con l’etichetta di “battute”. Il ruolo istituzionale di un Presidente del Consiglio non è compatibile con l’ironia su questi temi. I meccanismi della costruzione degli stereotipi, e la violenza che ne consegue, passano anche da qui: dalla sottovalutazione ironica, dallo scherno, dall’ammiccamento sbeffeggiante su presunte diversità altrui.

Siamo stanche di risate su questi temi. Siamo indignate perché queste parole sono cadute come macigni lungo la strada di chi si batte per una democrazia moderna, che dovrebbe avere uno dei suoi punti cardine nell’efficace contrasto giuridico, nonché politico-culturale, alle discriminazioni di genere e di orientamento sessuale. Al Parlamento e al Governo Italiano chiediamo responsabilità e impegno costante in tale direzione.

3 Novembre 2010

Società Italiana delle Storiche


Società Italiana delle Storiche
Segreteria
Via della Lungara 19
00165 Roma (Italy)
www.societadellestoriche.it

Nuove note su “Prosa in prosa” / in forma di lettera a Stefano Guglielmin

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Caro Stefano, questa lettera mia in forma di risposta o risposta in forma di lettera può avviare anzi proseguire il dialogo sulla tua recensione a Prosa in prosa, con la premessa che quanto qui scrivo non toccherà tutti i punti che suggerisci nella successiva annotazione che hai dedicato alla mia replica e di nuovo al libro (annotazione di cui ti ringrazio).

Un tema che mi sembra cruciale riguarda una affermazione, che giustamente tu critichi, che vorrebbe o vuole che l’opera dei padri vada conosciuta per “giustificare” i figli. (Anche se direi non padri ma fratelli, forse. Ma, più in generale, ecco:)

Non era forse questo il senso dell’exortatio a cui mi ero spinto nel replicare alla tua recensione. Certo l’exortatio non voleva/vuole pretendere – come forse sovrainterpretando scrivi – “dal lettore di conoscere l’opera dei padri per giustificare i figli”. Semmai rispondeva allo speculare suggerimento rintracciabile nella tua recensione, dove solleciti “una maggiore chiarezza critica verso la tradizione italiana (dai Vociani a Campana, da Pavese a Savinio, da Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola, da Pizzuto a Manganelli, per non dire dei Novissimi, dei Gruppi ’63 e ’70, e dei poeti di ‘Anterem’), così da rintracciare una linea autorevole legata anche alla nostra storia novecentesca e alla storia della nostra lingua”.

Stava e sta piuttosto, dunque, il senso della esortazione fatta, nella volontà di un effettivo reale confronto con quel ‘dopo-il-paradigma’ di cui ho tracciato insufficienti ma comunque forse rilavorabili e non inutili linee qui, ossia prima sul “verri” entro i margini di una sorta di dossier su Prosa in prosa, e poi su Nazione indiana lievissimamente variando e abbondantissimamente (nel thread, nei commenti) chiosando.

Cosa resta di quella discussione? Forse – ipotizzo – Continua a leggere