Art instead of being an object made by one
person is a process set in motion by a group
of people. Anything one says comes back
eventually as a mistake. There’s no use in
keeping accounts or records. If it’s
a good idea, it results in a permanent change.
Barrett Watten, Plasma (1979)
(1)
Ipotesi di definizione (perfettibile, già per logica): scritture estensive piuttosto che intensive. Di denotazione, non di connotazione, di oggetti più che di soggetto. (Di oggetti condivisi più che di soggetto dettante).
Scritture che hanno a disposizione sia un set o molti set di procedure, sia il comune handwriting. (O l’ascolto, il riuso, la citazione, l’assemblaggio eccetera).
§
(2)
Si potrebbe (o dovrebbe poter) dire che un titolo (di merito, anche) può essere:
poter prescindere dai ‘picchi’ di senso
(Di fatto, il senso è intenzionato dal lettore, il quale dunque è libero e non deve ammirare pose plastiche altrui). (O pose sadiane, tutte contro di sé).
Anche: sfrondando determinate isotopie o ricorrenze in un testo che pure le presenta, quel testo rimane o può (=è capace di) rimanere ugualmente godibile. Di per sé. Le isotopie non lo “giustificano”. (Possono certo essere ricchezze ulteriori, sì). (È forse qui il vecchio paradigma che avvalora coi propri ‘mezzi’ il nuovo).
§
(3)
Un classico delle divertenti vicende del paranormale: il registratore acceso nella stanza vuota cattura i bubbolii il respiro i soffi o la voce franca del fantasma. Così come (in Paranormal activity, per dire di qualcosa di recente) c’è cattura dell’immagine.
Nei video asemantici, o di pura registrazione (oggettività estrema), la camera fissa-fissata (su cavalletto o altrove) cattura invece il catturare, o quel che lo fonda, quel che viene prima e insieme alla nostra esperienza del senso, senza necessità del picco di senso (il fantasma, la sorpresa, l’evento).
Non è la delibazione romantica del panorama: è semmai il panorama. Stop. Nemmeno è la delibazione dell’apparizione nel panorama, cioè del paranormale. È anzi proprio il normale senza fantasmi. (L’ordinario, o l’infraordinario). Ed è – di questo – il valore comune, comunitario.
Nemmeno è musica concreta. (Anche se a questa si avvicina).
§
(4)
Sulla poca attenzione che gli italiani tributano alle nuove scritture può forse incidere il fatto che tantissima parte dell’esigenza di senso estensivo viene dalle esperienze di videoregistrazione, anche privata? (Soprattutto privata).
Alcune cose non vengono rintracciate nei testi (che comunque, va detto, hanno limitatissima distribuzione). Le persone hanno dei video. Propri/individuali. E – attenzione – non li hanno come sostituzione; attualmente gli ascoltatori/lettori sono persone già nate in un contesto dove il video è ambiente attestato, è di fatto un elemento dell’ecosistema, della semiosfera.
Polverizzano il collettivo (e lo sfondo, perfino storico) nel ricordo individuale. (Vale il reciproco: polverizzano il ricordo individuale nel collettivo delle possibilità tecnologiche).
La polaroid si scattava invece per mostrarla nell’immediato, condividerla. Manteneva materialmente insieme – o era già l’affioramento di una loro precedente coerenza – ego e luogo, volto e ambiente, figlia e matrice (identità e contesto); senza l’errore che introduco con la disgiunzione “e”; senza biforcazioni.
Forse è il senso e buon funzionamento degli shot da cellulare, tutt’ora.
§
(5)
La voce è parte e (però insieme) spettro del corpo. Corpo ma smaterializzato. Può risultare allora il miglior luogo dove veder accadere una scrittura successiva. Non attesa, che segue. È la voce che è/fa di sé un “tutta la voce”; non una parte di voce.
La voce va forando quanto è dissipato. È attraverso la voce che è possibile afferrare (=capire, visualizzare, agguantare, imprigionare, trattenere) i padri. I più dissipati, smaterializzati. Se alcune testualità passate – di secondo Novecento soprattutto – sono immateriali e inafferrabili, è meno con la teorizzazione e il confronto scritti e più con la voce e il dibattito che possono essere afferrate, criticate, perfino accusate.
§
(6)
Nel dialogo o nella discussione logicamente si produce quanto non è già dato; ossia non si riproduce il dato e detto. Allo stesso tempo, la verità o veridicità di quanto emerge dal dialogo non è indifferente alla presenza o assenza di un microfono o apparecchio che registra.
Avviene non diversamente dalla ripresa estensiva di un panorama, di un video registrato da camera fissa, che produce senso senza picchi. Come lì, anche nel dialogare, il rischio di voler parlare per (=attraverso / a favore di) vette di senso (narcisistiche, perfino) è in agguato, se compare un microfono, una macchina da presa. Questi strumenti potrebbero o dovrebbero esserci in quanto dimenticati. Messi lì e scordati. Oppure francamente assenti. La comunità che crea il dialogo e che da questo a sua volta è creata è più importante della direzione o degli scopi ai quali il dialogo tende o tenderebbe, soprattutto se la tensione è deviata dalla presenza di un’incisione.
Non si tratta di arrivare a un libro, a un video, a un file mp3 o mp4 da mettere in rete. Può succedere, questo. Ma deviare e progettare tutto il dialogo in vista di ciò cambia la natura stessa del dialogo.
§
(7)
Muybridge e i fotogrammi del cavallo in movimento. I momenti qualsiasi, le singole foto, non sono “pose”. Ne parla Deleuze al principio de L’immagine-movimento.
Sono veramente qualsiasi. Immagini qualsiasi, cioè epifanie joyciane, o: racconti sul tipo dei Dubliners. Non accade “nulla”. Lo scorrimento del nastro produce estensioni giustapposte o integrate, non picchi.
Non si tratta di pose (plastiche) ma di momenti perfino anonimi giocoforza (percepiti come) separati di un movimento unico / diffratto / molteplice. Singolarmente non formano una gipsoteca del senso. Uniti, nemmeno. (Condivisi, forse).
Il senso si produce: lo produce poi il lettore. O è chiamato a emergere dal cerchio di una condivisione.
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marzo-aprile-agosto 2012