[replica] _ nota non postata in facebook

nota non postata – per eccessiva lunghezza  in facebook.
(e, volendo, anche in dialogo con questo thread)

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Da trenta-quarant’anni alcuni editori (la maggioranza, e i – sedicenti – ‘maggiori’) non traducono. Anche molti moltissimi siti, recentemente, più o meno. Voglio dire: non traducono le cose ‘giuste’. Cose che volendo sono lì, in qualsiasi piccola (spesso anche grande) libreria di Londra o Chicago o New York o Parigi o Los Angeles. Arriva l’editore italiano, fa un giro tra i reparti, entra in quello di poesia, e puntualmente esce con i titoli sbagliati, o con qualche bel romanzone da tradurre.

Cioè: non sanno e non possono o non vogliono sapere quello che si fa fuori dalla lingua italiana. A loro non interessa quello che sarà (da noi) storicizzabile; e che è già storicizzato e studiato, altrove.

Così, la gente si è attrezzata da sé, da uno o due decenni; anzi da prima, attraverso parecchie riviste. (Ripescherei esempi, riportabili, volendo, ai tempi della facoltà di Lingue e letterature straniere, Villa Mirafiori, seconda metà degli anni ’80).

No news.

La gente non è scema, e se c’è una crisi della lettura è anche perché gli scaffali delle librerie generaliste sono come sono. Quelli di poesia, per esempio. I lettori forti e meno forti sanno ormai da tempo che devono starne alla larga, e che in linea di massima perderebbero tempo a compulsarli.

Dunque – dicevo – da parecchio i lettori trovano altre vie e canali. E luoghi fisici, e interlocutori. Sono migliaia le strade, i gruppi, i siti, le case editrici, le sedi di reading, nel mondo, e in Italia. È una galassia intera (e ci si vive dentro). E di fatto, stando anche semplicemente ai numeri e all’eco (anche accademico, in area non italofona soprattutto), non si tratta certo di ‘sottobosco’.

(Il sottobosco – purtroppo estesissimo – è semmai il pacchiano, il ridicolo, il provinciale; non il ‘piccolo’, l’indipendente, il non distribuito). (Altra parentesi: si direbbe semmai che pacchiana ridicola e provinciale sia molta scrittura mainstream, quasi tutta quella che si ammucchia nelle librerie di catena).

A occhi impoveriti e divorati da banalità, la galassia indipendente (non mainstream, non distribuita) non fa ‘massa critica’ e perciò – nell’opinione puntualmente banale dei manager delle case editrici a distribuzione maggiore – non merita investimenti: anche questo è un side effect della mancata familiarità dei medesimi manager e editori con quel che succede altrove. Ormai ci sono un paio di generazioni che possono dire di essere nate (e cresciute) dentro una situazione di ignoranza radicale. Che aspettarsi da loro?

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A quanto detto, aggiungerei la semplice osservazione che tutti noi usiamo linguaggi, codici, strumenti, reti (facebook, siti, cellulari, html, programmi di scrittura, di grafica, …), contrazioni/sintesi, ipotassi articolate, paratassi oscure o chiarissime e in entrambi i casi decifrabili e decifrate, opacità e iterazioni, materiali, citazioni, giochi e nuove regole in cui nuotiamo e da cui riusciamo a costruire testi che formano senso, lo trasmettono. Non parlo di letteratura, dico nella vita, semplicemente. Facciamo questo nella vita quotidiana. Ogni sms che digitiamo, ogni videogioco o app in cui impariamo istintivamente a muoverci, ogni ricerca in rete che sappiamo interpretare con successo, ogni conversazione de visu o su skype, ogni minima interazione umana (destreggiarsi nel traffico, fare un biglietto del treno, orientarsi in un aeroporto, in una lingua straniera), ogni insofferenza verso idiozie tv che critichiamo, ogni dialogo minimamente complesso o scherzoso tra amici, ogni calembour e iterazione e battuta, ogni analisi politica articolata che elaboriamo, ogni film e plot che percorriamo, ogni buon gioco di squadra, ha ed è una sintassi a cui siamo abituati. Che parliamo normalmente e afferriamo al volo. Che ci impegniamo a fare nostra (perché in qualche modo sentiamo e vediamo che già lo è).

Però – mistero – quando apriamo un libro di poesia pescato dallo scaffale generalista, d’improvviso piombiamo nella Firenze degli anni del consenso. Tutto deve ancora succedere. Dopo il Trio Lescano, il buio.

Di una situazione simile le case editrici, alcuni critici, le facoltà universitarie, gli editor, eccetera, non devono rispondere più a una comunità coesa/conflittuale, forse anche perché questa comunità si è disseminata in migliaia di soggetti a volte non in contatto tra loro. (Ma, prima ancora, perché la struttura del capitalismo degli ultimi decenni ha tra le proprie pietre angolari la distruzione radicale della facoltà critica – e delle sedi per esercitarla rigorosamente – a tutti i livelli). È un fatto.

In compenso (e azzardando sopra le righe): costoro – editori e critici, alcuni, molti – probabilmente ne rispondono o risponderanno “davanti alla storia”, se è vero che continuerà a essere scritta – come stolidamente insisto a credere – una storia dei linguaggi, dei codici, delle occasioni di senso (letterarie, e multicodice). Del resto, abbiamo un’opinione piuttosto precisa di alcuni editori, intellettuali e critici, e del loro ruolo, nell’Italia degli anni Trenta, e – non diversamente – sappiamo cosa pensare di tanti personaggi contemporanei. Alla fine le prassi e le scelte si pagano tutte, penso, nel bene e nel male.

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