– (Il concetto di deviazione e scarto può essere inteso non esclusivamente come interno a microintervalli, ma anche nel senso – scientifico – di “tempo profondo”: come, potremmo domandarci, è storicamente “glitch rispetto a noi” la pittura rupestre?) (Per dire). (!).
– Il glitch e altre pratiche nominate in varie occasioni (googlism, scrittura asemantica, ecc.) direi di considerarle sempre in qualche modo all’interno della cornice di quel qualcosa di indefinibile e spiazzante che in forma insoddisfacente grezza e abbreviata tenderei tutt’ora a definire scrittura dopo il “cambio di paradigma”. In questa area smarginata – e da studiare ancora – è molto problematico osservare una “necessità” e un'”opera” nel senso e nei modi in cui queste venivano individuate nelle stagioni o aree (temporalmente non finite) del modernismo e del postmodernismo (ammesso che quest’ultima categoria esista non solo come camera di compensazione di qualcos’altro, come credo).
– L’estrema volubile semi-interminabile variabilità e starei per dire volubilità del testo “dopo il paradigma” non esclude il concetto di necessità, ma ne assottiglia i parametri di definizione. Siamo meno vicini di prima a capire che cosa è un testo necessario, o perché è tale. (Ho in cantiere, su questo, un fascio disordinato di annotazioni che partono dal saggio in più parti, di Giuliano Mesa, Il verso libero e il verso necessario, in cui colgo una contraddizione temo inaggirabile in taluni elementi della proposta interpretativa).
– Le scritture nuove sono accusate spesso (e spesso con cipiglio da santa inquisizione) di registrare e far registrare una priorità o prevalenza della poetica sul testo. Penso che il rischio di sovrapposizione del metodo sulle opere, il crinale di assenso nei confronti del (o di un) sistema, e il rischio dell’esercizio di stile, in fondo, siano e saranno sempre ineliminabili da ogni e qualsiasi sistema di segni, se umano. Preferisco vederli e intenderli come vecchio e noto pericolo, perenne ubiquo (corso da qualsiasi scrittura, anche la meno azzardata) piuttosto che come qualcosa che specificamente riguarderebbe le nuove scritture; o che riguarderebbe queste ultime più di altre (chissà perché). Cioè: sia le nuove che le vecchie corrono il rischio della poetica dittante, della posizione ancillare rispetto a dispositivi sentiti come puri “tools”, e della retorica. (D’altro canto, scritture di più vecchia data e assodati meccanismi possono ben rivelarsi – loro sì – passibili di critiche rivolte al già noto, al cliché, al banalizzante/iterante).
– L’uso del termine “arte”, e la pratica (che appoggio) di legare esperienze artistiche varie a esperienze di ricerca letteraria, fanno sorgere una questione che potremmo indicare come la questione della qualificazione di “art”. Come esiste una land art o una conceptual art, e dunque – poi – una attivazione di meccanismi mercantili spettacolari anche in territori che elettivamente potrebbero esserne immuni o distanti, così le invenzioni di pratiche come la “sought poetry” o la “prosa in prosa” chiuderebbero in un riquadro presuntivamente stabilito un certo numero di operazioni, che in tal modo sarebbero definite, circoscritte, bloccate, disattivate-riparate (e con ciò ‘vendibili’, per quanto possa essere oggi o mai vendibile la scrittura). È questione a mio avviso delicata. Sempre più prudente sono, tento di essere, in tema. Uso volentieri, semmai, al posto di “arte” e “bello” e “poesia”, perifrasi o riferimenti circa il “passaggio del senso-non-senso”, anche se – a differenza di “opera” – il termine “arte” mi pare vocabolo che continueremo a usare, utile, forse inaggirabile, … ma via via – temo – meno (come dire?) “completo”, quando le architetture si fanno felicemente instabili, e i loro confini si sfocano e vanno ad aggettare verso tutto ciò che “arte” sembra recisamente non essere. (Rifiutando dunque, e per fortuna, riquadri categoriali netti).
– Detto ciò, penso sia allo stesso tempo inevitabile che le zone di segni che di volta in volta andremo a vellicare con oggetti nuovi dotati di evidenza (di transito) di senso-non-senso, possano rischiare (altro crinale vecchio e noto) di venir accalappiati da politica rapace, mercato, forze ulteriori e varie e – detto in breve – negative. (Questo non cancella, anzi rafforza, il possibile impegno ad essere estranei ad ogni uso strumentale delle medesime zone).
– Sul concetto di “opera”. Se almeno dal 1962 in avanti l’opera è (considerabile) “aperta” nel senso dato da linee di poetica, a me sembra che oggi l’apertura investa anche e più radicalmente (e massimamente in contesti immateriali, virtuali) i luoghi e tempi e modi di distribuzione, le persone, i loro rapporti, ed elementi ulteriori che mi è difficile mettere a fuoco. Li investe al punto da rendere meno disponibile e meno utile di prima l’accezione detta, l’accezione di “opera”, dico in senso modernista o postmoderno, cioè come oggetto coeso, dotato di necessità e obblighi formali interni (centripeti come nel Mesa di Tiresia o centrifughi come nel Cagnone di What’s Hecuba), o al contrario sbarazzino ma – claro – programmaticamente sbarazzino.
– Dunque sì, è ammissibile che anche un testo non finito o glitched o deviante sia “opera”, pur sempre “opera”, senz’altro, ma aggiungo che: SE – al crescere esponenziale della quota di non finito e glitch e deviazione – noi non iniziamo a sentir mutare anche il carico semantico che diamo al vocabolo “opera”, a mio avviso non rendiamo pienamente giustizia agli oggetti che abbiamo di fronte. E allora, SE quel carico semantico muta oltre un certo segno, perché non pensare a ulteriori vocaboli? Quali? È precisamente di questa ricerca e interrogazione e non-ancora-noto che parlo, quando parlo di necessità di mutazione del vocabolario critico di cui facciamo uso. Ed è per questo che insisto su incontri, aperti o chiusi, pubblici o informali, laboratoriali o accademici, di letture e osservazioni sulle nuove scritture.
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