[replica] _ spettri che parlano

La letteratura, come la politica, conta più corpi di quanti ne identifichi l’ordine poliziesco. Tutte e due includono nelle loro invenzioni dei quasi-corpi che non sono che “spettri” per lo sguardo dell’ordine dominante del visibile.

Jacques Rancière, Ai bordi del politico
(1998, tr. it. Cronopio, Napoli 2011, p. 16)

C’è un elemento, carattere o segnale politico nelle scritture? In alcune scritture? Diremmo che affiora o si nasconde sempre in tutte, e che sta in qualsiasi articolazione del linguaggio. Ma si tratterà solo di un carattere frontale, esplicitante, della pagina? Un carattere assertivo? Non si incarnerà piuttosto, tale carattere, in strategie formali diverse, in tracce diverse, e differenti aperture al lettore?

            Vorrei suggerirlo. Vorrei anche solo accennare al proficuo scompiglio portato nell’«ordine dominante del visibile» da quei graffi e grafie che abitano fuori dal vocabolario del dominio (assertivo), e fuori dall’incasellamento matematico e poliziesco nei generi letterari. Vorrei dunque, magari in parentesi, lateralmente, anche solo installare una freccia che indica alcune scritture degenerate. (Come di un frumento, anche, si dice che può essere deglutinato, privato di un coesivo che si rivela non essere unico né indispensabile).

                Chi ha ancora bisogno di rastrellare e tenere sotto controllo ogni possibile emissione di nuove pagine entro il recinto di un centro di permanenza temporanea, in attesa di smistarle nei campi dei generi letterari, inizia solitamente col catalogarle secondo quei parametri con i quali ha pacificamente o conflittualmente già fatto i suoi conti. Ne parlerà dunque come di “poesia”, decapitando ogni differenza; oppure ne parlerà come di testi che vengono dal periodo/eredità delle “avanguardie” o delle “nuove avanguardie”. Dirà: a volte sembrano tali, ‘ergo’ sono tali.

                A nessuno pare venir in mente che un etiope non è un eritreo non è un macedone non è un polacco non è un cinese. Se arrivano ex abrupto (?) da fuori sono tutti “extracomunitari”, no? Certo: ovviamente la comunità è una, santa cattolica italiana. Il romanzo della comunità! (La comunità del romanzo). Il resto non conta – se non appunto come resto, scarto.

                E poco importa, agli occhi miopi della tassonomia livellante, il fatto che per esempio tante nuove scritture di ricerca non italiane, anche semplicemente sotto forma di micro-occorrenze di senso che ci fanno vivere senza per forza essere ‘opere’, e mostrandosi davvero diversissime tra loro (googlism, scrittura concettuale, flarf, glitch, prosa in prosa, microracconto, animazioni flash, post di rigorosa filologia digitale, twit pseudo-informativi, terabytes di poesia visiva archiviata online, gif o jpg virali su tumblr, esperimenti grafici asemantici, video astratti, mp3 lobit su soundcloud…), siano già linguaggi, differenze condivise, e siano già materia e materiale presente attorno a noi. Non conta che si tratti già adesso della semiosfera e del senso delle nostre mail o sms, delle sintassi verbovisive che implementiamo nei post, della natura stessa dei social network (ma intaccata, criticata, magari), dei giornali in rete e fuori, dei blog, dei videogiochi, dei gruppi di discussione, dei muri siglati in spray, delle chiacchierate non certo lineari e assennate che facciamo a quattr’occhi, quotidianamente, extra skype, al bar, ovunque nei canali adsl e in quelli fisici di conoscenza e condivisione che riguardano e innervano i signa e le vite di milioni di persone, di vecchie e nuove generazioni. Che tante nuove scritture configurino picchi di senso inatteso, di cui facciamo tessuto mentale quotidiano. Che esistano perfino festival e rave e incontri, per chi fa googlism o glitch; e corsi universitari, e riviste. Che l’arte contemporanea abiti lì e non (solo) nelle gallerie. Che, insomma, i nuovi codici siano materia verbale del mondo là fuori. Nulla. Per chi resta impigliato nel conteggio razionale/razionante dei corpi, tutti in casella, si tratta e tratterà sempre di scritture ‘minoritarie’, ma in senso spregiativo (non come gli irraggiamenti del minus loquens Kafka, di cui sappiamo). Delle nuove scritture diranno nulla; o che non esistono. O che si tratta, al più, di cattivi o poco meno che cattivi epigonismi appunto delle stagioni delle avanguardie: solo «spettri», quasi-corpi, frazioni poco sopra lo zero. Pagine che di fatto tutti leggono e scrivono? Nulla. Editoria e storiografia non sono in ascolto, non ascoltando le voci attorno.

                Invece proprio un’idea di littérature générale – quale era osservata e ‘aperta’ (non chiusa) in rivista già vent’anni fa da Olivier Cadiot e Pierre Alferi – era ed è l’idea anche fenomenologica e perfino mappante, ostile al computo e numero chiuso dei corpi, che risponde più articolatamente e fedelmente alla situazione contemporanea e alla sua complessità. Per il contesto in cui ci troviamo a vivere, esiste sì una letteratura, dunque: viene prima dei generi che conosciamo, che conoscevamo, e può talvolta felicemente prescinderne. Ha spessore, ha autori che da decenni in tutto il mondo scrivono e dialogano. Si tratta infine di tradurli (e tradursi), dar loro il corpo che già le loro voci hanno. È, la traduzione stessa, un atto – più di molti altri – politico.

Marco Giovenale

[ già in «alfabeta2», n. 32, sett.-ott. 2013, p. 26 ]