Un paragone tra TTI e googlism, suggerito da Roberta Iadevaia, mi sembra non poco calzante. Sostanzialmente sono due le cose che osservo:
innanzitutto che quello che dice K. S. Mohammad a proposito di un’attitudine “aggressiva” dell’autore nei confronti del materiale grezzo (che google trova) assomiglia al tipo di lavoro che immagino si debba fare per mettere a punto un’immagine in dialogo con l’AI, con prove e controprove, forzando il linguaggio di comunicazione e selezionando in maniera radicale i risultati, riorientandoli eccetera (e con ciò riaccedendo forse a un’idea di autorialità, per quanto parziale);
e poi che mi convince molto quello che mi sembra dica Francesco D’Isa a proposito del linguaggio intermedio tra AI e interlocutore umano: un sistema di segni che – come tutti i linguaggi – evolve e si modifica con il contributo di (ma parallelamente con ampi margini di libertà da) entrambi gli attori, macchina e uomo.
In questo senso mi parrebbe di poter dire che è assai probabile che anche il linguaggio di comunicazione con l’AI finirà per entrare a far parte del nostro (sentire il) corpo; un po’ come già accade con la tastiera del pc o il cellulare, o la macchina fotografica prima ancora. Nel senso che i dispositivi non sono né entità indipendenti né puri e semplici ‘tools’, ma un’estensione non tanto del nostro corpo ma del nostro percepire il corpo. Così come accade con una lingua madre. Per me l’italiano non è un (s)oggetto da osservare o uno strumento da usare, ma un pezzo quasi interamente immateriale della glottide.
Probabilmente ho un approccio ingenuo (o ingenuamente ‘fusionale’) verso il rapporto che ci aspetta con l’AI, e poi non è detto che nell’evoluzione delle vicende non si innestino variabili più o meno macroscopiche che portano lontano da quello che l’esperienza sembra dirci su codici e segnali del passato. Ma per adesso annoterei questo, molto in sintesi.
Poi faccio una confessione: allo stato presente delle cose, è davvero davvero assai deludente per me quasi ogni risultato ottenuto con TTI. Vedo (non solo su facebook, dove il pacchiano abbondava già da prima) materiali visivi o scadenti o prevedibili o kitsch o – quando va benissimo issimo – deprimentemente conformi al passato iconografico di specie; spesso il passato più trito. Chiaro che è difficile che accada altrimenti. (Vedere appaltata a Botticelli una copertina di Urania mi disintegra; vedo pure tantissimi materiali che non stonerebbero in una sala d’aspetto di veterinario astrattista per diletto).
Ma è altrettanto chiaro che sarà proprio imboccando la cruna stretta dell’altro assoluto, della difficoltà, o di un impossibile che qualcuno (o qualche ‘macchina’) prenderà a sorprendere prima o poi il contesto di percezioni che ci costituisce.