Prosa e poesia / l’intervista uscita su “L’Ulisse” n.13

POESIA E PROSA

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ripubblico qui le mie risposte al questionario de “L’Ulisse” n. 13 (uscito ad aprile 2010):
http:// www. lietocolle.info/upload/l_ulisse_13.pdf
[link non più attivo]

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1. Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla questione dei generi)?

La mia idea di prosa è ovviamente anche un’idea o massa-matassa non solo mia: è di fatto trasmessa, sovrascritta: è una cosa e una casa anche altrui, costantemente. Precisamente per il fatto di appartenermi, è altra, composita, giocoforza differenziale, effusa direi anzi dissipata ossia sprecata in diffrazioni, prassi e diversioni da prassi (da quelle prediffuse, usurate). È cioè una specie di gomma-somma non aritmetica e anzi mosaico o ventaglio di eredità, microlabirinti e ricodifiche, giostre in buona parte e assai volentieri disallineate dall’usuale asse e traccia playback della prosa che si legge nei libri degli editori generalisti.

(Rispetto a questi ultimi trovo, semmai, e spesso, consonanza felice fra prosa scritta mia e flusso parlato casuale, eavesdropping, banalità da bar, eccetera: però, anche lì, è il quid normante del normale a indispettirmi. Il già dato, il precompreso, il predetto, quanto si sa e si vuole già letto dall’ebetudine dello spettatore di pagina o di festa aggiornato che si fa dire da giornali e inserti cos’è che deve scandire, ritenere, immettere in chat).

Quanto a(l) “me” in abito di lettore-lettore talvolta agìto, che cioè si sa e si vuole ingenuo, ben volentieri spendo tempo sulle pagine di Bram Stoker. Per dire. Non avanzo però molto in qua nel presente, se si tratta di cose così. Stili e modi così. Racconto-racconto. Certo, uno vede il gazzettone, la tabula recensoria dei best editoriali, e si domanda: ma quale roba non è così, in scaffale? Un esercito di marchese e contesse e raccontesse fanno le gare di puntualità. Il tè si serve alle cinque spaccate. Chi c’è c’è. (Ci stanno tutti).

Al posto della “figura dell’editor”, a una rimota et aliena omai intellezione bisognerebbe più tosto un auditor. Un udente tacito. Bene, non v’ha. (Bene non v’ha).

E gli autori, che fanno? Gli autori, gestori gestiti, giovani holding, si fanno demoltiplicare dalle x fisse che moltiplicano il mercato. È storia vecchia, di vecchi razzi, vecchi trucchi e gare tra mondi, poli, blocchi. E più gli alfabetieri sono prossimi già per loro VIRTVS allo zero, più certo è che partono avvantaggiati. Alleati naturali dell’attrito mancante, della veloce rotazione-turnazione delle faccette sul blogscaffale.

Insomma. Caro Broggi, che vuole che le dica? lei mi è sodale nella diffiziosa ventura di Prosa in prosa, presso Le Lettere. Dunque ambinoi_ahinoi bene sappiamo che nulla salus si dà extra mercato, fuori dai modi di prosa cuciti dalla confindustrietta della carta. Rade chances. Pinto che traduce Schmidt o Zaffarano che traduce Gleize o Bortolotti che volta in italiano il Derksen, per lunga pezza si staranno con noi nel basso dei geli.

Apro una parente. Sembra sia un particolare tipo di prosa a persuadermi: è certo anzi. E però mai, per questo, sottrarrei ascolto (tantomeno stima) a quelle vie del narrare in senso strettissimo che hanno tutti i pregi del depistaggio e dell’antiromanzo, dell’ombra e del non detto, perfino ove classicamente offerte. (Pur esse vie non sempre vantando, forse, statura di oggetti estetici). Penso a uno dei migliori prosatori degli ultimi decenni, quel Roberto Bolaño inaspettatamente accolto dalle braccia del lettore medio, di recente. (Ma mi permetto di preferire il dedalo compatto e pieno di incertezze di Monsieur Pain, al pur geniale 2666). D’altro canto tutte le lingue del colonialismo, se hanno covato e trasmesso il predatore peggiore degli ultimi secoli, il romanzo, hanno anche incubato ed espresso i migliori capovolgimenti del medesimo. Ha lo spagnuolo il Cortàzar, l’inglese il Beckett, Pynchon pure, il francese il Perec, il Tarkos.

(Poi penso al senso che Beckett e Bernhard hanno nel pensiero filosofico di Emilio Garroni, e sono tentato di aprire una parente nella parente; invece mi forzo alla doppia chiusura).

2. Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini dell’“abbassamento prosastico” e dell’avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare – nel lavoro suo, o di altri – altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Una delle ragioni per cui la razza umana ha impiegato milioni di anni per arrancare fino al linguaggio, è che c’erano importanti critici letterari.

A fare ostacolo, barriera. Anche prima. Anche prima del linguaggio.

Tu disegnavi due corna sulla roccia, su una bulla, su un toblerone d’argilla, e il critico ti suggeriva il bisonte sotto. Corna = bisonte. In fondo non c’è bisonte che manchi di corna, ti dicono. Dunque con due spunzoni tracciati, l’animalone fia sottinteso.

Vàgli tu a spiegare che quelli lì magari sono segni, che sono delle A, o una V, e che i tuoi neuroni si stanno facendo un culo tanto per inventare l’alfabeto. No, loro completano i (tuoi) disegni con l’allucinazione del loro déjà-vu. E così, dàgli, giù bisonti e bisonti per migliaia di anni.

Vedi tu se non sarà così anche con poesia e prosa. E col romanzo. Il novissimo bisonte.

Una delle bufale meno insensate dunque più ripetibili, poi, riguarda il cosiddetto abbassamento alla prosa della (dalla?) lirica, che qualche sùpero di genio ha evidentemente posto a guardia & fons sacra della scrittura sensata=potabile, anche da prima che si dichiarasse il verbo divino tombé giù in mota dalla zucca highclass dei vescovi, e idem il verbo poetico conciato come Baudelaire dice, con quella storia dell’aureola.

Ma gli autori, nuovi, che non si pongono (più, mai) il problema della “lirica”, non si pongono nemmeno quello degli “abbassamenti”. Scrivono e non si danno troppo pensiero dello scontornarsi delle righe.

Codice e coscienza (dei codici), ci vogliono, sì, in chi scrive. Ma ci vuole anche, da parte del lettore, una permeabilità al nuovo, al ricodificando, una disponibilità / disposizione ad andare verso il testo, ad accettare come parte del gioco ermeneutico l’accumulo di non detto, di marcatori formali non individuati, di ombre e geometrie non note che il testo implementa. Non è facile trovare questa disponibilità nel lettore italofono, abituato com’è all’aut aut prosa da una parte (che si autotraduce issofatto nell’imperio muggente del manzone) O poesia dall’altra (immancabilmente lirica, sorgiva nell’anthropos come la dromomania nel cucciolo).

In questo comico cosmo-duopolio, è evidente che se la poesia “s’abbassa” casca a pera nel narrare (epica? Spesso. Anche post-Novecento?! Così pare, così pera. Dolciume, retorico, catabasi rotondosa). MENTRE se la prosa “s’inalza”, e svetta, diventa sic et simpliciter prosa lirica, poème en prose.

Vàgli tu a indicare, ai pomìprosi rondisti, che Perec ha scritto L’infra-ordinario qualche bel decennio fa. Vàgli tu a mostrare le V sulla parete. Disegneranno sempre un manzo sotto, o un tabernacolo sopra, radiante.

Proprio non ce la fanno ad andare verso l’opera che hanno di fronte. Non sapendo andare, devono adorare. Non leggendo, eleggono. (L’eletto, il già dato, il sempre uguale).

E così i millenni passano, e nel loro piccolo gli anni, e nel loro nulla gli annuari.

3. Quale posizione ha la prosa all’interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Le mie narrazioni à la Cortazar non innamorano l’editoria corrente. Del resto non faccio quasi mai tentativi e proposte di narrazioni. In ogni caso, tempo addietro un amico anche redattore di rinomata rivista mainstream (ma non chiusa chiusa a esperimenti) definì i miei testi narrativi con suoni gutturali da fumetto, non con formole di critico. Di questo gli sono profondamente quanto inutilmente grato. Mi convinse da allora che i lettori ideali di quel tipo di pagine sono forse proprio lettori di fumetti, di fantascienza, di cattiva letteratura. Testi di surrealtà troppo malata, da fotografo d’antan che i sali d’argento se li beve. (Va da sé che quei “fluff zing smack crash” – come furo detti – persistono inediti tutt’ora).

Questo, per il racconto. Se raccontare si deve, quando si fa, quando si vuole. (Non è mica vietato, basta aver dato una scorsa anche veloce a seimila anni di mucche in riga, per sapere che fare, cosa evitare).

Detto ciò, penso a tutt’altro, ossia (per esempio) a La casa esposta, uscito per Le Lettere nel 2007. Lì convergono – nell’architettura – tre elementi: una poesia vagamente assertiva, in realtà fittamente sviata, ritorta, twisted, soprattutto sul piano sintattico; uno stack & stock di fotografie in bianco e nero che documentano il caos di un informe enorme duro doloroso scasamento e sradicamento interminabile; e infine una sequenza di prose presentate anche con corpo tipografico differente/differenziante, scritte e assemblate in vari modi – ma volentieri attraverso googlism (roba diversa dal cut-up propriamente detto).

Ebbene, il libro è in disequilibrio, il libro è un disequilibro (lasciatemi divertire). Le foto sono inserto ‘di mezzo’ (d’intralcio?), ma che non compare collocato al centro-centro; semmai spostato, mosso, sfocato di un grado verso l’inizio del testo. Poi il libro “finisce” con delle note … ma ricomincia subito dopo con le prose. Struttura bislacca.

In sostanza, prose e versi, blocchi e righe e immagini, non si guardano in cagnesco ma nemmeno si spalleggiano. Anzi forse si contestano a vicenda. L’impianto, la struttura, non è di contrafforti simmetrici, non c’è Rinascimento (senza che per questo si voglia cascare in barocchetto). Né le fotografie traggono luce dai testi, che per parte loro non giocano il gioco della didascalia.

Le prose di quella sezione si intitolano Tranne un oggetto. Le ho portate con me – tradotte in francese da Michele Zaffarano – a Lione nel 2008 per una lettura. Le medesime traduzioni sono uscite sul numero recente (n. 6) di «Nioques».

Ciò detto, derivo dai vari noccioli di discorso sparso per via: la prosa nel mio lavoro non ha un ruolo marginale, di “chiusura” (lampo, cerniera) nei libri, o di (absit iniuria eccetera) poème en prose.

Anzi.

Vorrei con qualche scàndolo gittare alle maestranze delle lettere contemp. l’indicazione che le mie (seppure di nulla eco) prose sono totalmente disinteressate allo statuto di prosa, come allo statuto di versi. Anche i versi hanno questo deplorevole atteggiamento, ma forse (ancor meno echeggianti) pubblicizzano poco e male la faccenda. (Tanto che curatori e cocuratori mi invitano spesso “a” reading e “in” antologie con neolirici e neorealisti, ignoro perché).

Non nego che una fortissima gioia di prosa(tore), joie du proseur, mi faccia di sé repleto come la colomba di pentecoste, con tutti i canditi e i mandorlini nella panza, quando pongo quotidiana mano alle lussurie di http:// differxit. blogspot.com [successivamente riassorbite in slowforward.net] ma pur basta/basterebbe prendere atto del lavoro svolto negli anni con altri testi, già da Curvature (La camera verde, 2002), e direi già da La Welt addomesticata (nell’ultimo numero di «Rendiconti», 1997), per dar contezza della sostanziale permeabilità di struttura versale, a-capo non metrico, metri ironici, gleiziana prosa in prosa, non-racconto, prosa franta, e altri Franti eventuali, che in capo a un decennio e qualche spicciolo ho avuto la malaidea di diffondere in carte e bytes.

Di una delle ultime letture di Amelia Rosselli a cui ho avuto la ventura di assistere (Roma, via dei Riari, 1993? ’94?), ricordo: introducendo il suo Diario ottuso, spese parole molto nette e dure di critica alla tradizione italiana del poemetto o poesia in prosa, e della prosa lirica. Parlò, anzi, di necessità di matematica, geometria, di freddezza, di misura. Poco mancava che dicesse precisamente prosa in prosa. (Dato assodato: non parlava di romanzi…)

Riprendendo il filo: Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso?

Mi interessa produrre oggetti estetici (quella compagine incerta di enti sdefiniti, non garantiti, che il Novecento sembrava aver reso familiari a tutti, come “(non)categoria senza caratteristiche”, produttori di senso-non-senso; se non fosse che l’Ottocento governa e rigoverna il Paese, via video, da troppo tempo ormai).

4. Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri, poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche non italiani)?

Nella tradizione c’è da sbizzarrirsi, e lo faranno un po’ tutti rispondendo a questa inchiesta con i nomi che sappiamo. Glisso e metto a fuoco invece, dei contemporanei italiani, Nanni Cagnone per testi come Enter Balthazar (Edgewise, 2000), geniale, non a caso pubblicato negli USA. Autore diversissimo è Carlo Bordini, che riesce a disintegrare o bellamente bypassare plot e regolarità narrative a colpi di candore-ghigno anche quando si getta nel(l’apparenza di) romanzo: di lui bisogna soprattutto citare un libro, che sarà pure confluito in altra opera successiva, ma ha indipendenza e potenza: Pezzi di ricambio (Empiria, 2003). Una breve ricerca in rete dimostrerà quanto siano validi, oggi, alcuni esperimenti di autori come Roberto Cavallera (appartatissimo, finora “on paper” ha pubblicato slm, presso le edizioni Arcipelago, nella collana ChapBook di Bortolotti e Zaffarano).

Spostando l’osservazione solo leggerissimamente indietro nel tempo, va fissato lo sguardo su alcuni nomi cardine. Emilio Isgrò, sicuramente, e Giancarlo Majorino. Così come mi sembra quasi insuperabile il Porta di Partita. E: inutile dire che le giustapposizioni del Balestrini di Tristano (proprio nei singoli blocchi di prosa, a prescindere dal concetto complessivo di montaggio del libro come tale, pur estremo e acuto, innovativo) sono quelle che accolgo con più favore (rispetto, per dire, al flusso di Vogliamo tutto). (Mi spiego: le slogature e i salti logici impliciti in Tristano sono il versante a mio parere più gustoso proficuo geniale, e attualmente ahinoi non vincente, della linea di lavoro che dal cut-up porta al googlism; mentre la consequenzialità colloquiale, pur fluida, di Vogliamo tutto, ha trovato decisamente più eredi, anche se si vorrebbe dire epigoni).

Inoltre mi limito a (ri)suggerire autori tradotti da Zaffarano e Bortolotti per http://gammm.org : Jean-Marie Gleize, Éric Suchère, Éric Houser, Christophe Marchand-Kiss, Jean-Michel Espitallier, Christophe Tarkos, Tao Lin, K.Silem Mohammad, Jeff Derksen, Lyn Hejinian. Ed è un elenco rapido/incompleto.

Vorrei poi nominare Robert Crosson, Paul Vangelisti, Laura Moriarty, Michael Palmer, Leslie Scalapino. Senza contare gli autori della language poetry, Charles Bernstein, Ron Silliman. Uno degli scrittori di nuova prosa a cui è più dimostrabilmente sensato legare testi miei (almeno per una parte del mio lavoro, dico, p.es. per Tranne un oggetto) è Rodrigo Toscano, e in particolare mi riferisco alle sue 62 prose units written in illness, tradotte da Gherardo Bortolotti per la collana ChapBook dell’editore Arcipelago.

In sintesi. Non posso non pensare a quegli scrittori che, in tradizioni soprattutto non italiane, hanno fatto della permeabilità o piena esplosione del confine tra prorsus e versus una costante che è sintomo di due cose: 1, passaggio avvenuto del Novecento (non a caso miscompreso in questa attuale squallitalia da tre tenori); 2, attestazione sempre più netta, pervasiva e positiva, durante e dopo il Novecento, dell’oggetto estetico (linguistico, visivo, verbovisivo, installativo, performativo, concettuale, …).

[«Estetico» è sempre da intendersi nell’accezione trasmessa da Emilio Garroni attraverso le sue letture kantiane]

5. Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Ho tradotto Kathleen Fraser, e autori di diversa generazione come Jennifer Scappettone, Susana Gardner, Drew Kunz, Linh Dinh, Nellie Haack, Eric Baus. Alcuni testi di Scappettone, con versi molto lunghi che lavorano non immediatamente sul piano metrico ma su quello dell’irradiazione semantica (vocaboli e incontri di vocaboli che moltiplicano i piani di significato, senza che però mai cedano ad alcun “connotativo” tipico del “poetico”, ossia alla “suggestione”), mi hanno dato molto da riflettere su una serie di cose che sto scrivendo dal 2001 in versi che sondano in tutti i modi (anche grafici) la modalità del non-verso.

Ma non posso dire che tradurre abbia riorientato e sovrascritto in forma totalmente determinante alcune mie scelte. Mentre devo e posso dire che l’insieme dei testi letti in traduzione e in originale (inglese e francese) mi ha confermato in molte persuasioni che avevo, in tema di scrittura di ricerca. E ha accelerato certi processi miei, o certe radicalizzazioni. Le letture sono quelle che si trovano su gammm, insisto.

Faccio infine una digressione non troppo estesa per toccare un tema a cui tengo:

Sono particolarmente interessato ai caratteri installativi dei testi verbali, che sarei tentato di definire in molti casi postverbali. Macchine elencative interminabili, blocchi verticali di textus che esce proprio quantitativamente dal campo della tessitura, del rinvio sonoro, lineare, performabile, per entrare semmai in quello della scultura, del volume-massa, dell’oggettualità piena, fissa. (Words to be looked at, recita significativamente il titolo del saggio di Liz Kotz dedicato non a caso a «Language in 1960s Art», MIT Press, 2007).

Se penso a Il dramma della vita, di Valère Novarina (la cui conclusione esce in italiano su Nazione indiana, tradotta da Andrea Raos), o ai monoliti che punteggiano le uscite di http:// hotelstendhal .blogsome.com, [link non più attivo] o ai flowchart ritoccati di Brunt, di Emilio Villa, o ancora alle opere in rete di Jim Leftwich, Jukka-Pekka Kervinen, Peter Ganick, non mi torna affatto come eco distante un’idea di scrittura di scena che (si) fa muro: muro-scena, opera verbovisiva in sostanza. (Che perda o meno il suo carattere alfabetico cellulare, costituitivo). È una delle vie di comunicazione verso la visual poetry, anche.

Ma qui si entra in altro tema ancora. E siamo in chiusura di digressione e di intervista.

6. Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all’intervista?

 

Mi sento di segnalare quattro testi usciti recentemente su «Ekleksographia», e tradotti in inglese da Linh Dinh:

http:// ekleksographia .ahadadabooks.com/ballardini/authors/linh_dinh.html

[link non più attivo] [ma testi ospitati successivamente qui: https://mosstrill.wordpress.com/2015/07/30/marco-giovenale-translated-by-linh-dinh/]