altra versione di un’intervista

La versione originale di questa intervista è uscita il 13 febbraio 2014 qui:
http://spaziovirtualeoccupato.altervista.org/intervista-marco-giovenale/.
Quella che segue è una versione riveduta e leggermente più
ampia, specie nella conclusione.

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Quali contenuti ospita il tuo blog personale http://slowforward.wordpress.com?

Il blog è nato nel 2003 e fin dal primo momento è stato pensato come uno spazio personale, anche se non di tipo diaristico. Semmai un luogo per annotazioni, saggi brevissimi, riflessioni legate a un’idea di estetica intesa come ambito non specifico, non separato dall’esperienza comune (in piena sintonia con l’accezione del termine “estetica” che devo ad Emilio Garroni). In Slowforward dunque si trovavano – e si trovano – appunti di poetica, segnalazioni di materiali miei comparsi in altre sedi (o testi sul mio lavoro), disegni, link a uscite sparse, fotografie, prose, versi.

            In verità il blog ha assunto già dai primissimi tempi – e poi direi ‘febbrilmente’ dal 2006 passando da Splinder a WordPress – l’aspetto di un luogo non autocentrato. L’avanzamento lento (lo slow forward) dello sguardo su un laboratorio di scrittura è diventato scansione su (e resoconto da) più laboratori.

            Il blog insomma si sforza di darsi come contesto che raccoglie, in gran numero, segnalazioni di eventi altrui, testi teorici in cui mi riconosco o che critico, rinvii ad altri blog; e ha preso a ospitare materiali non miei (e miei) legati a parecchi progetti e iniziative. Specie dai versanti del mondo anglofono che più seguo, non mainstream; e dall’Italia, da aree non mainstream. Principalmente quell’ambito non facilmente definibile che diremmo di scritture di ricerca. Ma non solo. Il blog segnala anche eventi e articoli di fotografia e arte contemporanea, alcune notizie legate alla politica, specie se intrecciate a letteratura e codici culturali complessi (da internet alla street art).

Non mi occupo praticamente mai del genere romanzo, invece. Azzarderei: lo considero un genere non eco-compatibile, semmai predatorio, deforestante addirittura, nemico della bibliodiversità. Il mio più che acuto disinteresse per il romanzo finisce per essere un tentativo di portare avanti anche ragioni di ‘politica’ della letteratura, se si può dire. È forse anche una particolare battaglia per la prosa breve, non narrativa, non poetica, non lirica.

            Da parecchi anni Slowforward ha poi un occhio particolare per le opere verbovisive, specialmente di tipo asemantico, “asemic”.

            Insisto sulla precisazione anche perché mi sembra di cogliere qua e là in rete e fuori, soprattutto in ambito italiano, qualche imprecisione su ciò che è asemic, e una facile confusione tra “asemantico” e “sperimentale”, o tra “scrittura asemantica” e “scrittura di ricerca”. L’“asemic” riguarda le arti visive; e la poesia visiva, al limite. È un ambito prettamente grafico: si tratta di grafemi illeggibili, glifi non riportabili a significati alfabetici. Parlare di “scrittura asemantica”  come sinonimo di “scrittura di ricerca” è – non so – qualcosa come parlare di astrattismo impiegando il vocabolo come interamente descrittivo della poesia di Eliot. Nessuno direbbe “l’astrattismo degli anni Venti” pensando con ciò di intendere “la poesia degli anni Venti”. Alcuni italiani, soprattutto in rete, non mettono a fuoco la cosa.

Nella Sinossi a Shelter si legge che disegni possibili celle descrivendo le case. Qual è lo spazio della natura?

È lo spazio dedicatole (anche) dall’ultima poesia della raccolta. Dunque leopardiano, e non euclideo, se posso aggiungere. Scomodo spazio, o nullo, riserva la natura ai viventi, e questi ricambiano l’ospitalità con un buon numero di oltraggi. Autodistruttivi, alla fin fine.

            La natura è anche il regno della patologia, degli organismi in mutua aggressione, dell’erosione della storia, forse; e via discorrendo. Di tutto questo, Shelter fa tema.

            Volendo, si può anche dire che l’intera raccolta, portando nel titolo stesso la doppia accezione di rifugio e di prigione, sottintende un riferimento indiretto ma non criptico a ciò che evidentemente sappiamo – senza neanche pensarci su troppo – della natura.

Ne Il segno meno addirittura lo spazio allontana lo spazio della natura, della figura femminile, lo spazio è talmente conquistato da una forza indefinibile che la natura sembra portare via con sè gli esseri umani nel regno dell’illusione. Si intuisce un certo pessimismo. L’ironia è diretta anche alla fenomenologia della religione?  

Sì, sicuramente. Aggiungo che forse proprio in questa raccolta inizia una ‘verifica’ palesemente e forse smaccatamente leopardiana di alcune relazioni tra viventi. In conflitto.

Cito solo la poesia Il tempo divora voce…, in cui Cerere è «bruciata»; e l’ultimo testo del libro, Già lo interessa intristisce…, in cui del «ritratto» viene detto che è una «categoria della natura / morta» (con cesura energica: in evidenza).

In Altre ombre inserisci anche parole francesi. Come mai questa scelta?

In verità succede un po’ in tutte le raccolte. E accade sia con il francese sia, e in misura maggiore, con l’inglese, mia (quasi) seconda lingua. Strana, arrugginita, contorta, fuori sincrono, ma mia. Si tratta di citazioni, talvolta, o di frecce rivolte a luoghi sonori e semantici che in un dato momento mi sembrano più pertinenti rispetto a vocaboli o espressioni italiane.

            In alcune occasioni hanno la funzione di delimitare parole-allegoria. Questo ovviamente accade in testi miei ancora ben catturati da un clima formale novecentesco.

Il lessico del lavoro diventa il lessico della quotidianità, le persone indossano gli stessi vestiti. Perché? È un’esigenza di realismo, la tua?

È una domanda strana, e che mi fa assai piacere. Tanti lettori individuano lessici o moduli o piegature complesse nei miei testi, e io – in tutta sincerità – non ho mai capito troppo perché a una percentuale alta di mie pagine – molto alta – debba così spesso essere affibbiata una patente di complessità estrema, perfino astrusità. Il lessico della quotidianità di fatto ‘è’ quello del lavoro, della vendita o espropriazione del tempo individuale. Continuo a dirlo anche da una condizione, come quella mia attuale, di ‘freelance’, in cui non ho più un direttore a cui render conto. Si diventa semmai carcerieri di se stessi. Niente di originale, lo so.

            Il paesaggio linguistico che ne consegue è insomma quello di ciò che i sensi affrontano momento per momento. Di realismo non ho mai parlato volentieri, ma forse le cose stanno così perché nelle tradizioni letterarie gli sono connesse – non solo in Italia – troppe idee narrative nelle quali faccio fatica a riconoscermi (per fortuna).

            È, questa domanda, fortemente in sintonia, comunque, con i miei libri di versi, e in particolare con quelli più (di nuovo) novecenteschi. Non che in tema di lessico e lavoro le cose cambino prodigiosamente, in testi come Quasi tutti o In rebus, dove la ‘quota’ di prosa (in prosa) è maggiore o dominante. Ma in parte sì. Se continuo a inserire in libri forse non (più) novecenteschi – come quelli citati – varie sezioni tematicamente omogenee a libri novecenteschi, e se dunque ‘persistono’ aree legate a lavoro, casa, percezione, clinica, accade anche il contrario, o accade altro, in altre opere, o plaquettes. Penso a CDK, per esempio, brevissima sequenza a cui tengo molto.

            (Cfr. http://slowforward.wordpress.com/2014/01/20/cdk-fra-altri-testi-in-nuovi-oggettivisti/).

In Endoglosse il verso si frasizza, diventa frase. Che tipo di ricerca sul testo fai in questa opera?

Preciserò: si tratta di un’opera nata in prosa, ossia non ‘condotta a prosa’ da un’origine in versi. È proprio prosa. È fra l’altro il testo sulla cui occasione è nata nel 2004 l’amicizia e collaborazione con alcuni dei sodali di gammm.

            Endoglosse è poi – a guardar bene – un lavoro già incamminato sulla strada della prosa in prosa, come il testo che sarebbe seguito, Numeri primi, uscito nel 2006, e come la sezione Tranne un oggetto de La casa esposta (2007), a cui segue la mia parte di pagine nel libro collettivo intitolato appunto Prosa in prosa (2009). Ma i materiali che negli anni mi è capitato di disseminare, in prosa non narrativa (o latamente narrativa) e non poetica, sono diversi, alcuni non in italiano.

            Forse la differenza principale tra Endoglosse e i libri seguenti risiede in una sorta di residuo vagamente surreale/sognante. Endoglosse ne è innervato, temo in eccesso. È un libro tuttavia anche – e perfino per ‘troppi’ aspetti – duro, o meglio amaro, evidentemente già abitato da ossessioni che opere successive si sarebbero incaricate di esprimere fin troppo abbondantemente.

            Ha anche qualcosa, forse echi, di racconti-racconti, ossia narrazioni effettive, brevi, pagine quasi cortazariane, che ho scritto tra l’inizio degli anni Novanta e il duemila, mai pubblicate, tutt’ora in attesa di edizione. (Ma si sa: in maggioranza gli editori sono assai poco interessati alla forma racconto).

Double click è un ibrido tra il verso e la frase dal punto di vista grafico. Illustrami questo secondo tipo di sperimentalismo.

Non saprei, lo ritengo in effetti un libro di versi, tranne un frammento brevissimo in prosa. Le due altre prose che contiene sono solo traduzioni italiane (non in versi) delle poesie che le precedono. Double click è un’opera che in piccola parte ho ripreso in Criterio dei vetri. Osservando quali brani tornano – e in che modo – si può notare la caduta, dal primo al secondo testo, di una quota di (davvero felicemente perdibile) espressionismo, di energia corrosiva tutta esplicitata, che con autocritica definirei sicuramente “assertiva” (!).

In La casa esposta emerge subito la ricerca dell’equilibrio. Esponimi questa altra tua ricerca grammaticale.

Parlerei forse per questo libro (che, lo annoto, in parte reinclude Il segno meno) di una grammatica non micro ma macrostrutturale, architettonica. Mi spiego. Si tratta di un’opera in cui l’architettura complessiva – diciamo la forma-libro in senso stretto – è scalena, asimmetrica. In che senso? Il volume si apre con prose e poesie piane, bene o male scioglibili secondo una sintassi e soluzioni retoriche e ritmi e metri fortemente novecenteschi, penso di poter quasi dire tardo-modernisti. Include poi una sezione senza titolo, di sole fotografie in bianco e nero, e infine ‘sembra’ chiudersi con una sezioncina di poesie nello stesso solco, cupe quanto decifrabili. In una, addirittura, aleggiano, neanche troppo contortamente, i profili tematici e retorici (addirittura narrativi) di T.S. Eliot e Bachmann. In fine, una serie di note. Ecco che però il lettore – ‘dopo’ le note di presunta chiusura – scopre che il libro non si è chiuso affatto. Continua, va avanti con una sequenza intitolata Tranne un oggetto, costituita da prose in font e stile del tutto diversi. Prose in prosa, si potrebbe suggerire. Frutto di diverse tecniche, non di solo prelievo e cut-up, per altro.

            Il libro è dunque sbilanciato, asimmetrico: sembra finire e si riapre; e non sa dove aggettino le campate testuali di cui pure è composto. Sono, queste, ben difformi e quasi tra loro nemiche, in aggiunta.

            Se dunque di una ricerca di equilibrio si può parlare, si tratta di un equilibrio fallimentare, instabile. Ma è precisamente tale forma di instabilità a tematizzarsi – proprio nella grammatica architettonica intera del libro – come altro e peculiare modus aequilibrii, in un frangente storico che a mio parere è definibile come tempo di chiusura di tanti, tantissimi ponti e conti col Novecento.

            Se un periodo diverso ha iniziato ad albeggiare verso la metà degli anni Sessanta, e viene tra i Novanta e oggi a manifestarsi compiutamente, quasi come un nuovo paradigma dei modi di costituzione del senso-non-senso, ebbene, è a questo periodo che un libro come La casa esposta inizia ad alludere o appartenere, seppure nella sua sola forma architettonica, e non interamente nei testi. (Almeno non nei testi esterni a Tranne un oggetto).

            L’architettura intera del libro permette, in tal modo, di ingabbiare forse una dichiarazione, uno spettro di operazioni testuali e post-testuali, che le poesie forse non hanno i mezzi o l’intenzione di articolare frontalmente.

            Insomma, la macrostruttura così com’è è più ‘avanzata’ delle microstrutture che comunque le permettono un discorso coeso, stabile, e – appunto – avanzato. (Spero).

In Criterio dei vetri tornano i vocabolari di altre lingue.

Come in effetti – sparsamente – un po’ in tutti i libri. Per un esempio ancor più netto di alterità linguistica, si possono vedere varie sequenze: A gunless tea (http://www.dusie.org/gunlesstea.pdf), i miei testi in inglese nel volume Nuovi oggettivisti (scritti in inglese, e così pubblicati, presentano comunque in calce a ogni pagina la traduzione in italiano; un indice si legge qui: http://www.loffredo.it/ecomm2/file/1387186986-intgio.pdf), e i testi di Anachromisms, che usciranno a breve per Ahsahta Press. Senza contare le uscite in rivista (in rete e su carta: imminente p.es. una serie nel prossimo numero, 12, della statunitense «OR», che si fa a Los Angeles grazie a Paul Vangelisti).

            La lingua altra è la lingua stessa. Non perché le differenze (culturali, ma tutte le differenze) possano ridursi o ricondursi a termini omogenei, a facili mappe coese, abbracciabili da un’occhiata; anzi, è una forte eterogeneità a campeggiare. Tuttavia la lingua non materna permette in parte, probabilmente, quella deviazione verso l’oggetto, quello smarrimento di un ego anche linguistico fintamente granitico, e quell’indisponibilità di un territorio noto, che contano o possono contare molto, in termini di ‘ricerca’. Specie – sottolineerei –  ora e nei decenni recenti, cioè nell’età dello spettacolare avanzato, e nel tempo degli eghi-aghi-narcisi che lo spettacolo forma, deforma, impone.

            L’inconscio che parla o da cui si è parlati non è più o non soltanto il simulacro di una retorica ereditata, il fascio dei tic linguistici e della facilità apparente (e apparentemente trasparente) della lingua madre, ma anche un territorio del tutto estraneo, come in effetti sempre è (o si suppone ‘debba’ essere) estraneo un inconscio, in generale. Fare dunque della propria scrittura il soggetto di ‘scrizioni’ e tracce esterne, cioè di un inconscio oggettuale e linguistico che si ha relativa coscienza di non ‘dominare’ imperiosamente (senza per questo esserne dominati), mi pare una delle prassi che descrivono una via delle scritture di ricerca. E uso il plurale, “scritture”, non solo per dire che vari percorsi seguo io personalmente, ma che infiniti ce ne sono attorno. Da parte di molti autori che non a caso talvolta si ritrovano entro i margini di definizioni non troppo forzate, come “prosa in prosa”, “postpoesia”, “nuovi oggettivismi”.

            Etichette? Indicazioni sommarie? Arbitrarie? Forse, in parte. Ma non fantasiose, non inapplicabili.

            (Certo, dopo la loro ‘applicazione’, sia propria sia mista a sovrascritture e interpretazioni anche improprie, non si può pensare a un contesto circostante invariato. Il passaggio delle definizioni, comunque avvenga, copre la strada di solchi, striature, screziature, e la cambia, dunque. Ogni scrittura non è “se stessa su supporto”, ma consiste anche – sempre – nelle mutazioni del supporto con cui fa intreccio).

            Approfitto di queste minime ‘conclusioni’ semi-definitorie per un addendum che indica i modi per smussare alcune inesattezze, indicare revisioni (come, righe sopra, facevo con il termine “asemic”).

            Si leggono ancora, a distanza di quasi dieci anni, imprecisioni – e addirittura interpretazioni imprecise di imprecisioni – sulla poesia o scrittura “fredda”, su gammm, eccetera. Tolta dal campo (ancorché presente nelle teste di troppi confusionari) la balzana banale equiparazione di “freddo” e “anaffettivo” (davvero da brividi), va pur aggiunto che in generale, sempre, una descrizione di nuove scritture, che con forza emergono in un dato periodo, implica quasi inevitabilmente una qualche prima imprecisione analitica, categoriale, critica.

            Non si può vedere o trovare al primo colpo – o non sempre – “il” formulario critico che scioglie in sintesi tutti gli aspetti di un panorama inedito o relativamente inedito.

            Tra 2004 (anno di un convegno fiorentino e di vari articoli in rivista), il 2005 (anno di un’edizione di RomaPoesia a mia cura) e il 2006 (anno di nascita di gammm, e della pubblicazione di articoli sul lavoro precedente), mi era sembrato di poter formulare ipotesi di “scrittura fredda”, talvolta definita “informale freddo”, con riferimento all’informale pittorico, ma asciugato dalla retorica del gesto, dal momento eclatante dell’asserzione perentoria (ego-centrata) di un certo stile, o spettacolo dello stile.

            Ebbene, quelle categorie – in parte penso ancora applicabili – sono state espresse attraverso tutta una serie di cautele e contro-osservazioni, e limiti, che tutt’ora si possono leggere già all’origine, al loro primo apparire, circa dieci anni fa, appunto, negli articoli Note di ricerca e ascolto di autori: un informale freddo – e una rete tesa ai punti («L’Ulisse», n. 1, giugno 2004: http://www.lietocolle.info/upload/ulisse_1.pdf, pp. 14-19),  Freddezza e persistenza del senso (in «L’Almanacco del Ramo d’Oro», a. II, n.5/6, nov.-dic.2004, pp.57-60, poi in http://www.italianisticaonline.it/2005/freddezza-e-persistenza-del-senso/), e in due testi – in qualche modo ‘riepilogativi’ dell’esperienza di RomaPoesia 2005 – usciti nel 2006 su «Poesia» e poi su «Absolute poetry», infine raccolti in unico post qui: http://puntocritico.eu/?p=2146. Si tratta di categorie per tanti aspetti superate dagli eventi, e dai libri usciti. Precisate, riscritte, pur non cancellate.

            Chi ancora, puerilmente, fa perno magari per vecchia polemica, su quel che di quelle categorie già gli articoli dichiaravano parziale e rivedibile, compie il triste consueto alacre pessimo lavoro del giornalista italiano medio(cre). Prende una parte per il tutto. Centra ogni pseudoriflessione su slogan. Pota i rami e la complessità dei discorsi e delle polemiche. Manca di senso della storia. Ignora o peggio falsifica le cronologie e lo stato anche presente del dibattito. Fa rumore inutile (per i pochi lettori di poesia, fra l’altro). Sottrae informazioni a chi già ne ha poche, a chi non ha a disposizione una tavola abbastanza completa di dati e date.

            C’è semmai bisogno di traduzione, di ascolto e riflessione su coestese scritture non italiane. C’è bisogno di una storiografia che allinei anche soltanto qualche piccolo dato evidente. (Che evidente tuttavia non è, per alcuni, pare).

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febbraio 2014

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