Il post del 1 luglio su Sloforward (https://slowforward.net/2020/07/01/landirivieni/) mi ha fatto venire in mente il testo a p.79 del libro Figurina enigmistica:
Visualizing data is like photography [6]
(Millivan e Sullivan si fanno un viaggio)ciò che veramente mi ha colpito, però, era sapere che le linee non rappresentano coste o fiumi o confini politici ma i veri rapporti umani dove sei? a casa sto arrivando qui dietro alle tue spalle dove sei? non c’è campo dove è andato? dove è adesso? non è raggiungibile Tolstoj il traffico è residuo avete lasciato la Slovenia e siete entrati in Croazia dovete andare a votare è ora di rivolgersi verso la Mecca per pregare
1941 Varsavia a occidente, 1809 Varsavia a oriente , XIV sec. non c’è Varsavia. Registrazioni: “Avete lasciato la Germania e siete entrati in Polonia” [7]
apt-get install anarchy
Sconnessione, scrivi, “in tanti tempi e frammenti di tempi”; “la perdita inevitabile e a volte radicale del contatto, oppure la ricomparsa di voci che si davano per disperse, la dissipazione della grana del discorso, il suo sgretolamento e resurrezione”, mi rende in modo magnifico la frammentazione della dimensione umana e la possibilità di un’autentica riconnessione. Via da schemi di pensiero, via dalle gabbie percettive, via dai cliché.
Penso che la questione difficile del “soggetto” possa essere affrontata proprio a partire dal discorso del glitch che pone in primo piano il disturbo della dimensione individuale dell’umano. L’umano che si pensa in quanto “individuo” è in realtà un essere diviso, scisso da un movimento del reale che lo comprende ma in cui non riesce, in ultima istanza, a sentirsi e a pensarsi.
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grazie a giovanna frene e a sergio rotino per le annotazioni su “delvaux”
Sergio Rotino, nel comunicato relativo alla presentazione bolognese del 20 marzo, dedica a Delvaux una nota leggibile in formato pdf (con il comunicato stesso) qui: http://slowforward.files.wordpress.com/2014/03/20-marzo-2014-delvaux-_-ibs-bookshop.pdf
Giovanna Frene suggerisce una poesia da Delvaux in http://ipoetisonovivi.com/, dedicandole una nota leggibile a questo indirizzo: http://ipoetisonovivi.com/2014/03/18/giovanna-frene-consiglia-marco-giovenale/
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nota non postata in facebook
nota non postata – per eccessiva lunghezza – in facebook.
(e, volendo, anche in dialogo con questo thread)
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Da trenta-quarant’anni alcuni editori (la maggioranza, e i – sedicenti – ‘maggiori’) non traducono. Anche molti moltissimi siti, recentemente, più o meno. Voglio dire: non traducono le cose ‘giuste’. Cose che volendo sono lì, in qualsiasi piccola (spesso anche grande) libreria di Londra o Chicago o New York o Parigi o Los Angeles. Arriva l’editore italiano, fa un giro tra i reparti, entra in quello di poesia, e puntualmente esce con i titoli sbagliati, o con qualche bel romanzone da tradurre.
Cioè: non sanno e non possono o non vogliono sapere quello che si fa fuori dalla lingua italiana. A loro non interessa quello che sarà (da noi) storicizzabile; e che è già storicizzato e studiato, altrove.
Così, la gente si è attrezzata da sé, da uno o due decenni; anzi da prima, attraverso parecchie riviste. (Ripescherei esempi, riportabili, volendo, ai tempi della facoltà di Lingue e letterature straniere, Villa Mirafiori, seconda metà degli anni ’80).
No news.
La gente non è scema, e se c’è una crisi della lettura è anche perché gli scaffali delle librerie generaliste sono come sono. Quelli di poesia, per esempio. I lettori forti e meno forti sanno ormai da tempo che devono starne alla larga, e che in linea di massima perderebbero tempo a compulsarli.
Dunque – dicevo – da parecchio i lettori trovano altre vie e canali. E luoghi fisici, e interlocutori. Sono migliaia le strade, i gruppi, i siti, le case editrici, le sedi di reading, nel mondo, e in Italia. È una galassia intera (e ci si vive dentro). E di fatto, stando anche semplicemente ai numeri e all’eco (anche accademico, in area non italofona soprattutto), non si tratta certo di ‘sottobosco’.
(Il sottobosco – purtroppo estesissimo – è semmai il pacchiano, il ridicolo, il provinciale; non il ‘piccolo’, l’indipendente, il non distribuito). (Altra parentesi: si direbbe semmai che pacchiana ridicola e provinciale sia molta scrittura mainstream, quasi tutta quella che si ammucchia nelle librerie di catena).
A occhi impoveriti e divorati da banalità, la galassia indipendente (non mainstream, non distribuita) non fa ‘massa critica’ e perciò – nell’opinione puntualmente banale dei manager delle case editrici a distribuzione maggiore – non merita investimenti: anche questo è un side effect della mancata familiarità dei medesimi manager e editori con quel che succede altrove. Ormai ci sono un paio di generazioni che possono dire di essere nate (e cresciute) dentro una situazione di ignoranza radicale. Che aspettarsi da loro?
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A quanto detto, aggiungerei la semplice osservazione che tutti noi usiamo linguaggi, codici, strumenti, reti (facebook, siti, cellulari, html, programmi di scrittura, di grafica, …), contrazioni/sintesi, ipotassi articolate, paratassi oscure o chiarissime e in entrambi i casi decifrabili e decifrate, opacità e iterazioni, materiali, citazioni, giochi e nuove regole in cui nuotiamo e da cui riusciamo a costruire testi che formano senso, lo trasmettono. Non parlo di letteratura, dico nella vita, semplicemente. Facciamo questo nella vita quotidiana. Ogni sms che digitiamo, ogni videogioco o app in cui impariamo istintivamente a muoverci, ogni ricerca in rete che sappiamo interpretare con successo, ogni conversazione de visu o su skype, ogni minima interazione umana (destreggiarsi nel traffico, fare un biglietto del treno, orientarsi in un aeroporto, in una lingua straniera), ogni insofferenza verso idiozie tv che critichiamo, ogni dialogo minimamente complesso o scherzoso tra amici, ogni calembour e iterazione e battuta, ogni analisi politica articolata che elaboriamo, ogni film e plot che percorriamo, ogni buon gioco di squadra, ha ed è una sintassi a cui siamo abituati. Che parliamo normalmente e afferriamo al volo. Che ci impegniamo a fare nostra (perché in qualche modo sentiamo e vediamo che già lo è).
Però – mistero – quando apriamo un libro di poesia pescato dallo scaffale generalista, d’improvviso piombiamo nella Firenze degli anni del consenso. Tutto deve ancora succedere. Dopo il Trio Lescano, il buio.
Di una situazione simile le case editrici, alcuni critici, le facoltà universitarie, gli editor, eccetera, non devono rispondere più a una comunità coesa/conflittuale, forse anche perché questa comunità si è disseminata in migliaia di soggetti a volte non in contatto tra loro. (Ma, prima ancora, perché la struttura del capitalismo degli ultimi decenni ha tra le proprie pietre angolari la distruzione radicale della facoltà critica – e delle sedi per esercitarla rigorosamente – a tutti i livelli). È un fatto.
In compenso (e azzardando sopra le righe): costoro – editori e critici, alcuni, molti – probabilmente ne rispondono o risponderanno “davanti alla storia”, se è vero che continuerà a essere scritta – come stolidamente insisto a credere – una storia dei linguaggi, dei codici, delle occasioni di senso (letterarie, e multicodice). Del resto, abbiamo un’opinione piuttosto precisa di alcuni editori, intellettuali e critici, e del loro ruolo, nell’Italia degli anni Trenta, e – non diversamente – sappiamo cosa pensare di tanti personaggi contemporanei. Alla fine le prassi e le scelte si pagano tutte, penso, nel bene e nel male.
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