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la traccia verde e il fissatigre

tracciaQuella qui riprodotta è una delle fotografie che, mostrate in sequenza, costituivano la sigla d’apertura dello sceneggiato tv La traccia verde, 1975. Bisogna immaginare una sigla intera tutta strutturata, o meglio destrutturata, o forse sospesa, in questo modo. Semplici fotografie, in una sequenza che durava oltre un minuto, accompagnata da una musica straniante di acuti (moog?).

Sigla pensabile oggi? A mio avviso no. In ogni caso, ho ritrovato abbastanza recentemente lo sceneggiato, che decisamente non è tra i migliori trasmessi in quegli anni dalla Rai, e che tuttavia mi ha dato occasione di riflettere una volta di più sulla costituzione e percezione di ombra, di non detto, di inesplicito, di latenze narrative, di indugio, attesa, che a far tempo dagli anni Sessanta e Settanta erano non l’eccezione elitaria ma quasi le regole della comunicazione generale, collettiva, delle cose, o almeno ‘potevano’ esserlo, visto che perfino la tv di massa (lo sceneggiato, appunto) ascriveva ombre e tempi dilatati e latenze, ampiamente, al linguaggio e al silenzio condivisi, e infine arrivava a registrarle nella rubrica della massima diffusione popolare.

Intendo suggerire che la percezione normale delle cose ‘comprendeva’ (= capiva, e includeva) la latenza, il non – interamente – detto, esplicitato, spiegato. E l’indugio.

Detto lateralmente, sommessamente: non tutti – nella generazione che ha formato il proprio linguaggio e le proprie visioni e ossessioni già negli anni Ottanta – possono forse dire la stessa cosa. Con la fine degli anni Settanta, almeno al livello della cultura diffusa, le cose cambiano profondamente. Alcune trasmissioni televisive, poi anche radiofoniche, e alcuni autori, alcune ricerche, non possono proprio materialmente più avere spazio, e spazio di ascolto ed espressione.

Il tipo di retoriche e di strutture, e di dissipazione di strutture, cambia dalle radici. Non si verifica più che uno spettatore si trovi di fronte a lunghissimi piani sequenza muti, nella tv generalista. Una sigla di un minuto intero fatta di foto o fermoimmagini di piante (come nello sceneggiato citato), diventa economicamente impensabile per la televisione della fine del millennio. (Parlo non di una sola sigla, ma di molte, strutturate in modo analogo, lungo l’arco che arriva a coprire interamente gli anni Settanta).

E dunque: quando lo stesso individuo che nel 1975 a sei anni vedeva La traccia verde si trova nel 1983 (ora a quattordici) a leggere Julio Cortázar, bisogna capire che oggettivamente ‘non può’ non sentirsi a casa. Non può non ritrovare parte della propria identità in racconti come Il fissatigre, o Casa occupata, o nelle vicende dei cronopios e dei famas. Non può non sentire vacue e fuori luogo, per non dire cretine, le domande che alcuni gli fanno e si fanno, circa il ‘perché’ di certe narrazioni cortazariane, circa il loro “significato”.

(Amici, replica, che senso ha la vita? Avete sempre bisogno di didascalie? Non campate senza? Non ne scrivete voi stessi, sempre, semplicemente vivendo?)

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su portbou: draft e notille, e un post scriptum

sulle nuove scritture di ricerca:

http://blogportbou.wordpress.com/2013/05/15/draft-e-notille-su-alcune-scritture-di-ricerca/

http://blogportbou.wordpress.com/2013/05/16/post-scriptum-a-draft-e-notille-su-alcune-scritture-di-ricerca/

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spiegazione del tutto personale e non programmatica (ma sperabilmente descrittiva, rapida e onesta) di che cosa è stato o potrebbe essere EX.IT

Alcune (e non: tutte le) nuove scritture di ricerca hanno iniziato a darsi appuntamento a EX.IT, ad Albinea, quest’anno dal 12 al 14 aprile 2013.

Hanno “iniziato”, perché l’incontro è stato un primo, solo un primo momento o movimento di quella che potrebbe essere una serie di verifiche e ritorni su ALCUNE scritture nuove, in particolare le scritture che non si riconoscono in determinate semplificazioni teoriche che pure hanno accompagnato avanguardie e neoavanguardie e movimenti novecenteschi in Italia; come non si riconoscono affatto in sbrigative ricostruzioni testuali del non noto sotto le insegne del noto.

In questo contesto, IL RIFERIMENTO AD ALCUNI AUTORI NON ITALIANI è stato, è e sarà essenziale, non accessorio. (La mancanza di questo riferimento fa mancare, spesso, elementi centrali di riflessione, osservazione, analisi).

Si intende: autori non italiani e non mainstream, e quasi tutti non tradotti, ancora non tradotti, dalle case editrici a distribuzione generalista; spesso neanche da piccoli editori, poi.

Ripeto un’ennesima volta cose già scritte e iterate.

ALCUNE nuove scritture di ricerca NON SONO necessariamente “orientate al linguaggio”. Dunque non sono (o: possono vivacemente non essere) iper-rimanti, assonanti, neometriche, materiche, neo-artaudiane, laborintiche, rap). NON sono di questo tipo. Alcune.

Se ne prenda atto, se possibile, come si prende atto di una strada ampia, a molte corsie, già efficiente e funzionante in pieno in Europa e in tutto il mondo. (Non l’unica strada, dioliberi. Ma una strada).

Ancora.

ALCUNE nuove scritture di ricerca NON SONO necessariamente riflessive, asseverative, rimodulanti aure e aurore varie, ricombinazioni di Heidegger. NON sono di questo tipo.

ALCUNE nuove scritture di ricerca non hanno molti parenti in Italia, non si insisterà mai abbastanza su questo. Ne hanno di più in Francia, Inghilterra, USA, Svezia.

Inoltre, NON (sottolineato: NON) vanno o non andrebbero automaticamente = meccanicamente = pavlovianamente riportate alle neoavanguardie (in particolare italiane).

Perché nel 2011, fondando il blog eexxiitt.blogspot.com ho pensato fosse uno spazio in rete da legare a un convegno-incontro-confronto?

Perché constatavo (come ahimé constato) che in Italia non si traduce, non si legge il poco o non poco tradotto, e ci si fraintende anche tra noi – quei pochi che leggono – “pubblico della poesia”.

La speranza è che EX.IT possa aver dato elementi per osservare un insieme di pagine che hanno tradizione altrove, e hanno in Italia autori in sintonia. (Invitati, infatti, a leggere ad EX.IT). (Alcuni, non tutti. Altri saranno invitati poi).

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scritture di ricerca: letture pubbliche eccetera

temo non ci sia modo di spiegarsi se non ostensivamente, in tema di scritture dopo il paradigma.

al momento dunque si fa (si può fare) (anche) così:

si prende un oggetto testuale, o verbovisivo, oppure delle opere grafiche asemantiche, o interventi di carattere installativo, anche performativo, sonoro eccetera, e si passa alla condivisione: si mostra quanto si sta facendo, o si è fatto (magari, per esempio in Francia, negli ultimi trent’anni e più). si mostra quello che c’è.

si fa una lettura, un post, un incontro. (o, al limite, una serie di incontri, come nel caso di EX.IT). si fa un sito, un blog. si organizza un reading.

si mostra al lettore, all’osservatore, quel che c’è da vedere. (volendo vedere).

costui – il lettore – ne chiederà ragione. questa ragione (che tale non è) non potrà essere articolata, concessa, e dall’altra parte recepita, intesa, se il lettore non è lui per primo (in virtù di una serie di esperienze) disposto/intenzionato da una parte ad andare verso il testo, e dall’altra a osservare che già il proprio sguardo è dopo il paradigma. (lo è normalmente, nella vita di tutti i giorni: non c’è “avanguardia” e “ricerca” in tante cose post-paradigma che facciamo, vediamo, sentiamo, leggiamo, scriviamo, pensiamo, quotidianamente. non sono azioni e percezioni di tipo letterario, e allo stesso tempo si tratta di tracce di un modo di essere profondamente diverso dagli ‘standard’ – dalle dominanti – di anni o decenni addietro).

se ci si ostina a guardare il riflesso della finestra e non attraverso la finestra sarà sempre impossibile vedere cosa c’è fuori. (e viceversa, ovviamente: se si guarda soltanto fuori, non si è in grado di usare la finestra anche come non inutile specchio).

al carattere ostensivo del gesto critico sono personalmente persuaso si debba legare strettamente e indissolubilmente – in questa fase storica – il fondamento SU AUTORI NON ITALIANI.

martellanti vecchie letture e riletture di autori canonizzati italiani sono quasi inevitabilmente destinate al fallimento. forse anche in quei (magari nemmeno rari) casi in cui alcuni italiani (‘maestri’) esistano.

anche perché si tratta di letture e riletture ovviamente non svincolabili da uno storicismo che inquadra in uno e in un solo modo le avanguardie e che dunque non può proprio mettere le mani in modo competente e utile nel dopo paradigma, perché questo “dopo” quasi non parla affatto il linguaggio critico (e storicistico) italiano.

al contrario, con chi avrà attraversato – anche per excerpts – gli ultimi venti-trent’anni di scrittura anglofona e francofona (le ricerche di centinaia di autori) si stabilirà inevitabilmente, naturalmente, un dialogo.

si stabilisce: di fatto.

ripetizioni inutili di righe e temini postpuberali sul gruppo 63 o su Palazzeschi o Calvino marcano i ripetitori come non interlocutori (ovvero: come persone non disposte – loro – all’interlocuzione, al dialogo).

nel preciso momento in cui sento parlare di metatestualità neoavanguardista, o di gruppo ’93, o di eredità diretta di Sanguineti, è inevitabile correre a connotare il canale di comunicazione come poco o nulla attendibile. così – e con gioia – si passa ad altro.

(cioè a interlocutori effettivi. a soggetti meno inclini a pavlovianamente salivare beati soltanto al gong delle ultime pagine dei loro manuali di liceo dello scorso millennio).

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cursore

Ci sono elementi per considerare esaurita (nella ricerca, non nel mainstream, anzi) la fase storica che ha ospitato una posizione autoriale asseverante, assertiva (in senso non problematico, non radicalmente dubitante)? In effetti è quello che mi sembra di poter osservare, più che… asseverare.

Ma è detto altrove. È stato detto. Da molti, meglio e più che da me.

Qui semmai una nota personale.

Numerosi autori che stimo molto – specie italiani – e che rientrano pienamente nel cerchio di un modernismo, sembrano / continuano a sembrarmi interessanti senz’altro, se non indispensabili, e non penso certo sia possibile né legittimo metterli sulla fettuccia centimetrata della storia per inchiodarli a una posizione X “arretrata” rispetto a Y, … ma allo stesso tempo devo confessare che mi interessano di più altre esperienze.

Mi sembra insomma che gli (o molti degli) autori “prima del cambio di paradigma” mi chiedano di fare verso di loro un percorso che di suo impone a me lettore troppe tracce-prescrizioni (un percorso che non ha coscienza del proprio esser sovrascritto dal loro ego, umbratile e parcellizzato solo a parole: in verità del tutto adamantino, per come scrive e organizza, per come congegna la pagina).

Non trovo questa sicurezza negli autori “di dopo”. In Costa. In Tarkos. In Bordini. Non a caso questi mi persuadono integralmente.

Le petit bidon, di Tarkos, è sì un pezzo straordinariamente ben performato, in cui la voce ipercosciente dell’autore sa il fatto suo, anche su un fronte attoriale; ma – fra molte altre cose – è del tutto evidente, è addirittura tattile la sensazione della non necessità dei pezzi che comporrebbero il quadro. Tarkos funziona anche se lo prendi a martellate. E la voce è davvero staccata da se stessa, dal sé. Il testo funziona sulla carta, di suo, e anche a pezzi, non intero, comunque. (Recantorium, di Bernstein, frammentato funziona comunque, a perfezione). (Ha e non ha “struttura”). (Retro, di Costa, potrebbe durare trenta minuti, o due: nulla cambierebbe).

Al contrario, nel miglior modernismo, ora mainstream (poi spesso kitsch), tutto si tiene. Gesto conoscitivo complesso e gesto linguistico complesso si integrano, sotto il segno di quella che Giuliano Mesa chiamava “necessità” (in un articolo su “Baldus” nel 1996, poi sul “verri”, nel 2002: Il verso libero e il verso necessario): ma, allo stesso tempo, è proprio la pre-scrizione di questa necessità, e la sovraincisione della lettura altrui, a fare problema (fecondo, io credo); e a disgregarsi, felicemente, nelle scritture nuove, dopo il paradigma.

Per far posto, sostengo, a una differente ombra di necessità. A una diversa silhouette testuale, tagliata non più dalle sole mani dell’autore, secondo un modello che – pur non pregresso – poi imprime la propria necessità; semmai da un imprescrivibile cursore che oscilla tra il leggente e lo scrivente, e che non ha ancora trovato chi sappia disegnarlo, definirlo, dirlo. (Io meno di tutti).

 

lost in translation

per dire.

una volta c’era (dodici anni fa circa) il sito Lost in translation, che usava Babelfish per tradurre e ritradurre un tot di volte (passando per varie lingue) un testo base in inglese e riportarlo daccapo infine in inglese, distorto battuto sfigurato trasformato.

tutti ci abbiamo lavorato o lavoricchiato (su differx io nel 2006, mi pare: cfr. le varie uscite del testo La signorina dell’ortottica). (installazione testuale, non testo in senso stretto).

adesso ecco:
http://gizmodo.com/5977267/listen-to-call-me-maybe-after-its-been-put-through-google-translate-over-and-over-again.

anche chi traffica non per forza con la letteratura e la ricerca letteraria ma generalmente si muove e gioca nel sistema rete (http://www.gizmodo.it/ non mi pare altra cosa) logicamente fa uso in forma del tutto normale di cut-up, traduzione multipla, frammentazione del testo. magari per divertirsi, per mettere insieme un passatempo, senza peso, ma insomma: non ha bisogno di ‘rispondere’ a intellettuali dubitosi. o di ‘giustificare’ una prassi. magari nemmeno di ‘produrre senso’.

semplicemente è già dentro un certo modo di percezione. (come tutti).

un’intera generazione e area (di mondo occidentale: sì) da oltre dieci-dodici anni è addirittura nata nel clima mentale che rende possibili certe scritture e (anti)strutture. (alcuni autori anticipavano di quasi mezzo secolo tale clima).

quando dico che molte scritture o prassi o atteggiamenti post-paradigma sono già naturalmente in uso, quotidianamente ovunque e fuori della letteratura (la digitazione di messaggi, il rapporto con un nuovo videogioco, l’avviarsi di un qualsiasi lavoro su un tablet, il nostro dialogo con la memoria, la visione, la strada) non intendo niente di diverso, in linea di massima.

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http://slowforward.wordpress.com/2012/09/29/riambientarsi-ma-anche-difendersi/
http://puntocritico.eu/?p=4446
http://puntocritico.eu/?p=4406
http://puntocritico.eu/?p=952

[replica] _ dietro le curvature

Considerate il teatro occidentale degli ultimi secoli: la sua funzione è essenzialmente quella di manifestare ciò che si ritiene segreto (i «sentimenti», le «situazioni», i «conflitti»), nascondendo gli artifici stessi di questa esteriorizzazione (i macchinari, le tele dipinte, il trucco, le sorgenti d’illuminazione). La scena all’italiana è lo spazio di questa menzogna: tutto accade in uno spazio furtivamente dischiuso, sorpreso, spiato, assaporato da uno spettatore celato nell’ombra. Questo spazio è teologico, è lo spazio della Colpa: da un lato, in una luce ch’egli finge di ignorare, sta l’attore – cioè il gesto e la parola –, dall’altro, nel buio della notte, il pubblico, ovvero la coscienza.

Roland Barthes, L’impero dei segni (1974),
tr. it. di M.Vallora, Einaudi, Torino 1984; 2004: p. 71.
Si sostituisca a «teatro» e «scena» la parola «poesia».



Da Affabulazione, di Pier Paolo Pasolini:

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Ombra di Sofocle:

Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata. E perché?
Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata come le parole
che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato – come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita:
le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello.
Ora, in teatro, si parla come nella vita.

[…]

Se fossi stato solo un poeta,
te lo spiegherei con le sole parole!
Ma io sono più che un poeta; perciò
le parole non mi bastano; occorre che tu,
tuo figlio, lo veda come a teatro; occorre che tu completi
l’evocazione della parola con la presenza di lui,
in carne e ossa, magari mentre nudo fa l’amore
– o qualcuno di analogo a lui e, comunque anch’esso
in carne e ossa – con le sue membra scoperte.
Devi vederlo, non solo sentirlo;
non solo leggere il testo che lo evoca,
ma avere lui stesso davanti agli occhi. Il teatro
non evoca la realtà dei corpi con le sole parole
ma anche con quei corpi stessi…

Padre:

Ebbene?

Ombra di Sofocle:

L’uomo si è accorto della realtà
solo quando l’ha rappresentata.
E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla.

[…]

Padre:

Se le parole non bastano… c’è la realtà…

 […]

*

Sono qui, in Affabulazione, offerte le stesse osservazioni – chiaramente di origine aristotelica – che Pasolini fa, a proposito del cinema, in Empirismo eretico. Il carattere ostensivo tanto del teatro quanto del cinema è in linea di massima una sorta di verità autoevidente. Come il cinema, anche il teatro – pur se in misura diversa o ridotta – presenta il reale attraverso il reale. (So bene che i valori compressi o precipitati nel verbo «presenta» sono connotati alla radice da uno sguardo maschile). (Continuo, sapendolo).

In Affabulazione siamo però – in tutta evidenza – entro un teatro del tempo, della durata cronologica, della localizzazione. Siamo nel libero uso di (o in una teoria che comunque fa riferimento a) unità aristoteliche, appunto. Né disindividuazione né fuga dalla trama né dominio dei significanti sembrano in campo. Se il padre urla (e non balbetta) in scena, anche questo urlare è un significato. La pellicola lineare, la tessitura, trama, non salta. Né si è di fronte a uno smembramento vocalico puro di qualcosa che poteva pretendere di preesistere alla distruzione. Siamo semmai all’integro, integerrimo; ci troviamo in compagnia di realia pressoché intatti, per quanto ideologicamente (dati come) corrotti, che vengono significati da altri realia ancora – non meno integrali, nelle loro caratteristiche formali. E comunicative.

Comunicano, fra l’altro la realtà della regalità del figlio. Il regicida, nel rovesciamento pasoliniano, è infatti il padre. Il padre abbatte il vitalismo non solo del proprio figlio, ma di una generazione intera che si rifiuta perfino di interessarsi all’uccisione dei genitori. Il vecchio potere così anticipa, sopravanza e schiaccia il possibile o impossibile nuovo.

*

[Parentesi di domanda (a Pasolini, forse). Perché replicare – sia pure dal rovescio – la finzione quotidiana dell’impalcatura del reale, le convenzioni e convinzioni, in letteratura, in poesia? La scrittura non è semmai precisamente l’allontanamento? O, almeno, un allontanamento? È il bersaglio che si allontana e costringe l’osservatore-arciere a corrergli dietro, raddoppiando, moltiplicando la difficoltà del tiro. L’oggetto testuale è dietro un orizzonte non piatto, ma dovuto a (costituito da) una curvatura]

*

Se da un lato Pasolini e il teatro di dizione-parola-rappresentazione-realtà-contenuto (o oggi un teatro pop, o stancamente neo-artaudiano, o di narrazione) operano un raddoppiamento del reale, del reale interpretato, fanno mimesi del falso, o del costruito, dunque falsificazione al quadrato, almeno Pasolini studiava come inserire in tutto ciò il plastico (nelle troppe accezioni) che avrebbe minacciato e minato – a suo dire – quella fictio(n). Il trucco antitrucco.

Pasolini nella sua opera dava insomma, al (presunto) contenitore retorico semistabile (borghese), taluni contenuti instabili e aggressivi che supponeva lo avrebbero fatto saltare. (O: che Pasolini per primo vendeva a se stesso come capaci di farlo saltare).

Il teatro dell’aneddoto invece, quello dei contenuti-contenuti, specie se fatto da quelli che Bene chiamava caratteristi (oggi magari macchiettisti), era ed è spettacolo pieno (e spettacolo di uno spettacolo che ormai hanno/abbiamo introiettato: il falso essendo un momento di quel che chiamammo e chiamiamo vero).

A questo punto, da cosa sentire diversità? Da che punto del problema teatro far scattare la tagliola del problema per la poesia? (O: la tagliola del problema che la poesia in sé è?). (O: saranno questioni o problemi che si parlano e si implicano?).

Forse è, questo, un falso problema. O forse gli va trovata altra forma, esposizione. Personalmente qui solo un cenno:

i testi in versi e prosa portati all’Argentina il 28 marzo scorso (così come il lavoro di Babilonia Teatri, che trovo in qualche modo in risonanza) sono materiale dubbioso, dubitante; non strategicamente ma proprio originariamente umbratile/umbrifero. E, in quanto organismi, si spostano, penso: cioè non vanno verso il cosiddetto pubblico, verso i tiratori. E quell’arciere lì che già correva righe sopra [nella parentesi] deve correre ancora, e di più, se vuole anche solo individuare il segno. Per: spostarsi oltre la curvatura del discorso.

Shelter e In rebus sono testi che non vogliono fare la grazia, al pubblico, della finzione quadra a cui è già avvezzo.