http://blogportbou.wordpress.com/2013/04/08/il-quarto-incluso/
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Ci sono elementi per considerare esaurita (nella ricerca, non nel mainstream, anzi) la fase storica che ha ospitato una posizione autoriale asseverante, assertiva (in senso non problematico, non radicalmente dubitante)? In effetti è quello che mi sembra di poter osservare, più che… asseverare.
Ma è detto altrove. È stato detto. Da molti, meglio e più che da me.
Qui semmai una nota personale.
Numerosi autori che stimo molto – specie italiani – e che rientrano pienamente nel cerchio di un modernismo, sembrano / continuano a sembrarmi interessanti senz’altro, se non indispensabili, e non penso certo sia possibile né legittimo metterli sulla fettuccia centimetrata della storia per inchiodarli a una posizione X “arretrata” rispetto a Y, … ma allo stesso tempo devo confessare che mi interessano di più altre esperienze.
Mi sembra insomma che gli (o molti degli) autori “prima del cambio di paradigma” mi chiedano di fare verso di loro un percorso che di suo impone a me lettore troppe tracce-prescrizioni (un percorso che non ha coscienza del proprio esser sovrascritto dal loro ego, umbratile e parcellizzato solo a parole: in verità del tutto adamantino, per come scrive e organizza, per come congegna la pagina).
Non trovo questa sicurezza negli autori “di dopo”. In Costa. In Tarkos. In Bordini. Non a caso questi mi persuadono integralmente.
Le petit bidon, di Tarkos, è sì un pezzo straordinariamente ben performato, in cui la voce ipercosciente dell’autore sa il fatto suo, anche su un fronte attoriale; ma – fra molte altre cose – è del tutto evidente, è addirittura tattile la sensazione della non necessità dei pezzi che comporrebbero il quadro. Tarkos funziona anche se lo prendi a martellate. E la voce è davvero staccata da se stessa, dal sé. Il testo funziona sulla carta, di suo, e anche a pezzi, non intero, comunque. (Recantorium, di Bernstein, frammentato funziona comunque, a perfezione). (Ha e non ha “struttura”). (Retro, di Costa, potrebbe durare trenta minuti, o due: nulla cambierebbe).
Al contrario, nel miglior modernismo, ora mainstream (poi spesso kitsch), tutto si tiene. Gesto conoscitivo complesso e gesto linguistico complesso si integrano, sotto il segno di quella che Giuliano Mesa chiamava “necessità” (in un articolo su “Baldus” nel 1996, poi sul “verri”, nel 2002: Il verso libero e il verso necessario): ma, allo stesso tempo, è proprio la pre-scrizione di questa necessità, e la sovraincisione della lettura altrui, a fare problema (fecondo, io credo); e a disgregarsi, felicemente, nelle scritture nuove, dopo il paradigma.
Per far posto, sostengo, a una differente ombra di necessità. A una diversa silhouette testuale, tagliata non più dalle sole mani dell’autore, secondo un modello che – pur non pregresso – poi imprime la propria necessità; semmai da un imprescrivibile cursore che oscilla tra il leggente e lo scrivente, e che non ha ancora trovato chi sappia disegnarlo, definirlo, dirlo. (Io meno di tutti).
per dire.
una volta c’era (dodici anni fa circa) il sito Lost in translation, che usava Babelfish per tradurre e ritradurre un tot di volte (passando per varie lingue) un testo base in inglese e riportarlo daccapo infine in inglese, distorto battuto sfigurato trasformato.
tutti ci abbiamo lavorato o lavoricchiato (su differx io nel 2006, mi pare: cfr. le varie uscite del testo La signorina dell’ortottica). (installazione testuale, non testo in senso stretto).
adesso ecco:
http://gizmodo.com/5977267/listen-to-call-me-maybe-after-its-been-put-through-google-translate-over-and-over-again.
anche chi traffica non per forza con la letteratura e la ricerca letteraria ma generalmente si muove e gioca nel sistema rete (http://www.gizmodo.it/ non mi pare altra cosa) logicamente fa uso in forma del tutto normale di cut-up, traduzione multipla, frammentazione del testo. magari per divertirsi, per mettere insieme un passatempo, senza peso, ma insomma: non ha bisogno di ‘rispondere’ a intellettuali dubitosi. o di ‘giustificare’ una prassi. magari nemmeno di ‘produrre senso’.
semplicemente è già dentro un certo modo di percezione. (come tutti).
un’intera generazione e area (di mondo occidentale: sì) da oltre dieci-dodici anni è addirittura nata nel clima mentale che rende possibili certe scritture e (anti)strutture. (alcuni autori anticipavano di quasi mezzo secolo tale clima).
quando dico che molte scritture o prassi o atteggiamenti post-paradigma sono già naturalmente in uso, quotidianamente ovunque e fuori della letteratura (la digitazione di messaggi, il rapporto con un nuovo videogioco, l’avviarsi di un qualsiasi lavoro su un tablet, il nostro dialogo con la memoria, la visione, la strada) non intendo niente di diverso, in linea di massima.
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Considerate il teatro occidentale degli ultimi secoli: la sua funzione è essenzialmente quella di manifestare ciò che si ritiene segreto (i «sentimenti», le «situazioni», i «conflitti»), nascondendo gli artifici stessi di questa esteriorizzazione (i macchinari, le tele dipinte, il trucco, le sorgenti d’illuminazione). La scena all’italiana è lo spazio di questa menzogna: tutto accade in uno spazio furtivamente dischiuso, sorpreso, spiato, assaporato da uno spettatore celato nell’ombra. Questo spazio è teologico, è lo spazio della Colpa: da un lato, in una luce ch’egli finge di ignorare, sta l’attore – cioè il gesto e la parola –, dall’altro, nel buio della notte, il pubblico, ovvero la coscienza.
Da Affabulazione, di Pier Paolo Pasolini:
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Ombra di Sofocle:
Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata. E perché?
Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata come le parole
che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato – come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita:
le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello.
Ora, in teatro, si parla come nella vita.
[…]
Se fossi stato solo un poeta,
te lo spiegherei con le sole parole!
Ma io sono più che un poeta; perciò
le parole non mi bastano; occorre che tu,
tuo figlio, lo veda come a teatro; occorre che tu completi
l’evocazione della parola con la presenza di lui,
in carne e ossa, magari mentre nudo fa l’amore
– o qualcuno di analogo a lui e, comunque anch’esso
in carne e ossa – con le sue membra scoperte.
Devi vederlo, non solo sentirlo;
non solo leggere il testo che lo evoca,
ma avere lui stesso davanti agli occhi. Il teatro
non evoca la realtà dei corpi con le sole parole
ma anche con quei corpi stessi…
Padre:
Ebbene?
Ombra di Sofocle:
L’uomo si è accorto della realtà
solo quando l’ha rappresentata.
E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla.
[…]
Padre:
Se le parole non bastano… c’è la realtà…
[…]
*
Sono qui, in Affabulazione, offerte le stesse osservazioni – chiaramente di origine aristotelica – che Pasolini fa, a proposito del cinema, in Empirismo eretico. Il carattere ostensivo tanto del teatro quanto del cinema è in linea di massima una sorta di verità autoevidente. Come il cinema, anche il teatro – pur se in misura diversa o ridotta – presenta il reale attraverso il reale. (So bene che i valori compressi o precipitati nel verbo «presenta» sono connotati alla radice da uno sguardo maschile). (Continuo, sapendolo).
In Affabulazione siamo però – in tutta evidenza – entro un teatro del tempo, della durata cronologica, della localizzazione. Siamo nel libero uso di (o in una teoria che comunque fa riferimento a) unità aristoteliche, appunto. Né disindividuazione né fuga dalla trama né dominio dei significanti sembrano in campo. Se il padre urla (e non balbetta) in scena, anche questo urlare è un significato. La pellicola lineare, la tessitura, trama, non salta. Né si è di fronte a uno smembramento vocalico puro di qualcosa che poteva pretendere di preesistere alla distruzione. Siamo semmai all’integro, integerrimo; ci troviamo in compagnia di realia pressoché intatti, per quanto ideologicamente (dati come) corrotti, che vengono significati da altri realia ancora – non meno integrali, nelle loro caratteristiche formali. E comunicative.
Comunicano, fra l’altro la realtà della regalità del figlio. Il regicida, nel rovesciamento pasoliniano, è infatti il padre. Il padre abbatte il vitalismo non solo del proprio figlio, ma di una generazione intera che si rifiuta perfino di interessarsi all’uccisione dei genitori. Il vecchio potere così anticipa, sopravanza e schiaccia il possibile o impossibile nuovo.
*
[Parentesi di domanda (a Pasolini, forse). Perché replicare – sia pure dal rovescio – la finzione quotidiana dell’impalcatura del reale, le convenzioni e convinzioni, in letteratura, in poesia? La scrittura non è semmai precisamente l’allontanamento? O, almeno, un allontanamento? È il bersaglio che si allontana e costringe l’osservatore-arciere a corrergli dietro, raddoppiando, moltiplicando la difficoltà del tiro. L’oggetto testuale è dietro un orizzonte non piatto, ma dovuto a (costituito da) una curvatura]
*
Se da un lato Pasolini e il teatro di dizione-parola-rappresentazione-realtà-contenuto (o oggi un teatro pop, o stancamente neo-artaudiano, o di narrazione) operano un raddoppiamento del reale, del reale interpretato, fanno mimesi del falso, o del costruito, dunque falsificazione al quadrato, almeno Pasolini studiava come inserire in tutto ciò il plastico (nelle troppe accezioni) che avrebbe minacciato e minato – a suo dire – quella fictio(n). Il trucco antitrucco.
Pasolini nella sua opera dava insomma, al (presunto) contenitore retorico semistabile (borghese), taluni contenuti instabili e aggressivi che supponeva lo avrebbero fatto saltare. (O: che Pasolini per primo vendeva a se stesso come capaci di farlo saltare).
Il teatro dell’aneddoto invece, quello dei contenuti-contenuti, specie se fatto da quelli che Bene chiamava caratteristi (oggi magari macchiettisti), era ed è spettacolo pieno (e spettacolo di uno spettacolo che ormai hanno/abbiamo introiettato: il falso essendo un momento di quel che chiamammo e chiamiamo vero).
A questo punto, da cosa sentire diversità? Da che punto del problema teatro far scattare la tagliola del problema per la poesia? (O: la tagliola del problema che la poesia in sé è?). (O: saranno questioni o problemi che si parlano e si implicano?).
Forse è, questo, un falso problema. O forse gli va trovata altra forma, esposizione. Personalmente qui solo un cenno:
i testi in versi e prosa portati all’Argentina il 28 marzo scorso (così come il lavoro di Babilonia Teatri, che trovo in qualche modo in risonanza) sono materiale dubbioso, dubitante; non strategicamente ma proprio originariamente umbratile/umbrifero. E, in quanto organismi, si spostano, penso: cioè non vanno verso il cosiddetto pubblico, verso i tiratori. E quell’arciere lì che già correva righe sopra [nella parentesi] deve correre ancora, e di più, se vuole anche solo individuare il segno. Per: spostarsi oltre la curvatura del discorso.
Shelter e In rebus sono testi che non vogliono fare la grazia, al pubblico, della finzione quadra a cui è già avvezzo.
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su scritture dopo il paradigma, mi permetto di rinviare a quanto scritto da Bortolotti e Zaffarano in “L’Ulisse” n.4, giugno 2005:
cfr. le pp. 59-73 del file
*
Marco Giovenale
[…]
I. Per datare i cambiamenti: alcuni indizi
I.1.
L’impressione è che da circa mezzo secolo noi tutti siamo fuori da un “paradigma”. In occidente, almeno. (Paradigma è vocabolo sentito alternativamente o troppo invadente o troppo poco inclusivo, eccessivamente blando; dunque lo si assumerà come signum arbitrario da variare; al momento lo uso come puro termine convenzionale, e provvisorio).
Se un cambio di paradigma c’è stato (perfino in Italia), di fatto ci troviamo adesso in un altro/differente (o entro una serie di altri), che invece appunto ci include e determina. Siamo (nati) in un diverso paradigma che include/informa percezioni reazioni relazioni nel contesto o panorama occidentale, e nei testi che vi si producono. Tutto o moltissimo è cambiato intorno a noi e in noi anche per via di quel che è stato scritto e sentito e percepito e fatto e detto dall’inizio degli anni Sessanta. A me sembra che si sia pienamente (e contortamente) dentro un mutamento, o mutazione avvenuta e ancora in atto: ci siamo letteralmente nati, è stato la nostra placenta.
Eviterei di parlare di Modernismo come di Postmoderno. Anche se parlare, invece, di paradigmi è quanto meno fumoso. Ma qui non scrivo un “saggio”; qui semmai si dà per avviata (con puntini di sospensione all’inizio e alla fine) una sequenza di ipotesi e domande, più che risposte; si ragiona operando su un terreno che il ragionamento stesso tenta di preparare a un viaggio verso definizioni in larga parte da elaborare.
I.2.
Il cambio di paradigma sembra essere iniziato al principio degli anni Sessanta. Rosselli scrive Spazi metrici nel 1962, Antonio Porta Aprire nel 1960-61, Corrado Costa le prime poesie sul «verri» in quegli stessi anni. (Ma gli esempi sarebbero dozzine). Esce nel giugno 1962 Opera aperta, di Eco.
Rosselli chiude e castra razionalmente/musicalmente il metro italiano forzandolo in SPAZI metrici, Antonio Porta raffigura sì un delitto (dalle annotazioni ad Aprire, testo che conclude I Novissimi), la cui vittima è una donna (che è immaginabile lui tema); ma, pur facendo così, smembra l’io proprio, parlante: è totalmente preso dal disintegrare e disinnescare sia il racconto sia l’io che narra la storia. Corrado Costa è già al dopo, è collocabile in una diversa percezione, una diversa modulazione di testualità. Questo in verità sarà evidente soprattutto al principio degli anni Settanta, con Le nostre posizioni (1972). Costa a me sembra la figura centrale di una specie di consolidamento di posizioni poetiche, insieme a Spatola e a tutta l’area di scritture (non necessariamente rapite dalla sirena metatestuale) che formavano la costellazione sfrangiata delle neoavanguardie e delle tante linee di ricerca in quegli anni (spesso riunite in riviste effimere, contraddittorie: tutte però significative di una situazione).
Quelli di Rosselli e Porta sono testi ben diversi da quelli che poteva scrivere Sanguineti tra 1951 e ’61. Molto lontani. Continua a leggere
1. Se in effetti si è dato cambio di paradigma, come giudicare le (e come rapportarsi alle) scritture che lavorano non solo onestamente ma proprio sensatamente legittimamente proficuamente con strutture strumenti e modi precedenti quel cambiamento? Tutte le scritture che sembrano non tener conto del cambiamento gli sono veramente estranee? Oppure si può dire che, con strategie differenti, avanzano in altro modo in un territorio comunque anch’esso non più garantito da un paradigma (assertivo, narcisistico-autoriale, civile-e/o-lirico/egotico-e/o-realista)?
2. Forse non il cambio di paradigma in sé, ma già addirittura il percorso e i testi che a questo conducono implicano una crisi nel concetto classico (statico) di reading di poesia. E, questo, non solo perché molti nuovi testi sono installativi, o freddi, o spazializzati (=legati a una percezione visiva dello spazio della e nella pagina di carta o elettronica), o ipercomplessi e dunque non vebalizzabili. Non solo, dunque, perché smantellano un concetto semplificatorio di lettura lineare di testi lineari. Ma altresì perché – anche banalmente – uno degli assi portanti della scrittura di cambio di paradigma è la presa di distanza dallo spettacolo, in generale. (O almeno dallo spettacolo come magniloquenza).
3. Il cambio di paradigma sembra prendere distanza sia dallo spettacolo, dal ‘poeta’-dicitore attore, o performer o quant’altro; sia dal set di richieste lanciate da costui al pubblico (“datemi un feedback come ne dareste al vostro cantante preferito”, “elettrizzatevi”, “seguite il climax della mia lettura”, ecc.); sia da agganci e interpunzioni o segnature musicali e leziose, e da tutti i marcatori del performativo nel testo scritto. Come un testo di prosa in prosa azzera le esche facili del ‘poetico’ e le spazza via dalla pagina, così in generale un testo dopo il paradigma elide gli effetti di lacrimazione commozione partecipazione che derivano da quel ‘poetico’, sia esso inquadrabile come poesia civile, o splatter pseudoprovocatorio, o come oratoria paratelevisiva, o come captatio di altra specie. In che modo si configura dunque, dati questi elementi, una esposizione pubblica di un testo o di un’installazione verbale?
4. In che modo un testo dopo il paradigma registra o comporta una qualche problematicità nella sua scansione e struttura come libro? Com’è fatto un libro ora? Com’è la sua architettura, quando e se è (o si vuole) necessaria? L’inserimento di materiali non testuali (ma sonori, visivi) che forma assume e come interagisce con una parte solo testuale (se permane) nell’opera?
previously published:
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