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corrispondenza privata_ (6) : francia, italia

Segnalo questo testo di Jan H. Mysjkin: https://www.ny-web.be/artikels/heureux-parmi-des-ruines-en-carton-pate/ caldeggiandone energicamente la lettura.

Non solo dice – con utile sintesi – come sono andate certe cose in poesia (e postpoesia) in Francia tra 1980 e 2000, ma a mio avviso dimostra anche quanto forti fossero in quegli anni affinità e differenze tra il panorama francese e quello italiano. Tra le differenze, anche in tema di riviste, è da ricordare (a lode della Francia) la presenza di “TXT”, “Java”, “Revue de Littérature Générale”, “Nioques”.

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[dal corsivo introduttivo:]

Cette étude sur la poésie française des années 1980-2000 a été publiée pour la première fois en néerlandais dans la revue Nieuwzuid (n° 29, 2008). Elle était conçue pour accompagner une anthologie avec des poèmes de Leslie Kaplan, Dominique Fourcade, Christian Prigent, Michelle Grangaud, Yves di Manno, Jean-Paul Auxeméry, Olivier Cadiot, Pierre Alferi, Véronique Pittolo, Katalin Molnár, Christophe Tarkos, Nathalie Quintane, Jean-Michel Espitallier et Ariane Dreyfus. […]

ieri: di e su costa

Ieri sono usciti due post costiani :

– le preview (sia quella italiana che quella inglese) da La sadisfazione letteraria, su gammm:
http://gammm.org/index.php/2014/01/02/da-la-sadisfazione-letteraria-corrado-costa-1976/

e

– una triplice recensione – a cura di Andrea Cortellessa – in Punto critico:
http://puntocritico.eu/?p=5967

ottobre-novembre-dicembre 2013 su punto critico

ottobre su punto critico

cantiere: bruno snell, eraclito

Già Schleiermacher (fr. 10 della sua numerazione, p.333) traduce: “Il signore, il cui oracolo si trova presso i Delfii (sic), non spiega né nasconde ma accenna (deutet an)”. E da allora questa traduzione: “accenna” si è conservata. Ma così la proposizione non presenta una contraddizione? Se Apollo “accenna” soltanto, allora evidentemente esiste per lui un’effettiva univocità che per una qualche considerazione egli tace: dunque egli nasconde qualcosa. Ma Eraclito dice esplicitamente che egli non nasconde nulla. E poi semaíno non significa mai “accennare”. Esso significa: dare un segno. Del resto esso viene impiegato anche con particolare riferimento a segni divini. Ma qui cosa potrà significare questo: egli dà un sema?

Si richiami soltanto alla memoria di quale specie erano gli oracoli cui Eraclito può riferirsi. In Erodoto leggiamo che quando a Delfi Creso si informò sulla progettata campagna contro i Persiani, gli fu fatta la seguente profezia (Erodoto, I 53): “se tu oltrepassi l’Ali, distruggerai un grande impero”. Questo è un tale […] oracolo “a doppio taglio e a due facce” (come dice una volta Luciano, Juppiter Tragoedus 43) che non esprime chiaramente ma neppure nasconde, bensì – questo è decisivo – che dà il senso e il senso contrario. La risposta del dio presenta un sema, un simbolo, che semplicemente c’è.

E semaínein è il termine proprio per “significare” (bedeuten). Qui abbiamo il collegamento con il logos di Eraclito. Anche il logos, il senso, semaínei, non parla univocamente come il nume ma neppure nasconde nulla, bensì c’è in quanto sema e “significa”. Questo logos è effettivamente simbolo del mondo, poiché anch’esso semplicemente c’è, indifferenziato e unitario, come l’universale.

I giovani pescatori che si cercavano i pidocchi si sono rivolti all’indirizzo di Omero in questo modo (fr. 56): “quante cose abbiamo viste e prese, tante lasciamo; quante non ne abbiamo né viste né prese, tante con noi rechiamo”. Ma Omero non ha intuito il doppio senso, così come Creso non ha compreso la duplicità di senso dell’oracolo. E così anche gli uomini si lasciano ingannare dalla gnosis ton phaneron (conoscenza delle cose evidenti). La storia che narra come Omero sia morto di disperazione per la sua confusione di fronte a questa proposizione di sicuro non è granché spiritosa. Ma Eraclito la riprende, perché è un esempio semplice e ben conosciuto per ciò che considera come l’essenziale del logos. Chi nel linguaggio non vede nient’altro che uno strumento, per fissare e trasmettere una determinata conoscenza, non comprenderà mai qualcosa del senso profondo del mondo, così come esso appare nel linguaggio, e del significato autentico del logos. In Eraclito, quindi, la predilezione per i giochi di parole non è mai soltanto uno scherzo spiritoso, bensì un richiamo costante a questa singolare essenza duplice del logos, che ha significato univoco e tuttavia duplice.

Bruno Snell, Die Sprache Heraklis (1926)
Tr.it. di B.Maj: B.S., Il linguaggio di Eraclito, Corbo, Ferrara 1989, pp. 24-26

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il terzo assente / differx. 2013

da recognitiones-ii:
http://recognitiones-ii.blogspot.it/2013/09/il-terzo-assente-differx-2013.html

 

Rif.: Ron Silliman, La frase nuova (da The New Sentence),
it. di Gherardo Bortolotti in«L’Ulisse», n. 13, aprile 2010, pp. 22–42:
http://www.lietocolle.info/upload/l_ulisse_13.pdf
(poi in «il verri», n. 48, febbraio 2012: 
http://slowforward.wordpress.com/2012/04/02/il-verri-n-48/)

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La new sentence è un altro modo (forse definibile [molto] statunitense) di articolare la différance. Come momento terzo, che non potrebbe esserci (e non c’è), all’interno di [o in un’apparenza di interno di] un possibile artiglio tripartito hegeliano.

Se una (un’idea di) différance sposta sulla stessa improponibilità del tertium una dis/integrazione di un binomio, e di fatto arretra a disgregare le pregresse articolazioni del discorso, la new sentence mette sul tavolo da gioco il terzo elemento. Lo esprime. Assurdamente, lo delinea. Ne delinea uno assurdo. Irrelato con i due “termini” (o la sequenza di termini) iniziali, e scardinante.

In questo risiede il suo contributo al contesto (che “contesto” non è) della marca, dell’intacco, dell’imene, della soglia, del né-né.

Il momento “then”, sillogistico e illogico, positivo e deviante, della new sentence è un gancio né-né che spezza (o meglio rovescia in evidenza l’infondato del)l’unità della frase che pure (apparentemente) la generava.

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su academia.edu

(Pur non essendo io un accademico) alcuni testi sono/saranno disponibili in academia.edu  :

interventi, saggi, annotazioni, articoli @ http://uniroma1.academia.edu/MarcoGiovenale/Papers

recensioni @ http://uniroma1.academia.edu/MarcoGiovenale/Book-Reviews

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per aldo rosselli / carlo bordini (“l’unità”, 3 ottobre 2013)

Carlo Bordini
(da “L’Unità”, 3 ottobre 2013)

È morto ieri a Roma, a 79 anni, Aldo Rosselli. Figlio di Nello Rosselli e nipote di Carlo Rosselli, i fondatori di Giustizia e Libertà, assassinati dai sicari di Mussolini in Francia. Cugino della grande poetessa Amelia Rosselli, viveva ormai a Roma da molti anni, attratto, come ha scritto in un suo racconto, con una espressione indimenticabile, dal “cielo manieristico” della capitale, dopo aver vissuto a lungo in Svizzera, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Narratore, saggista, americanista, fondò nel 1956 la casa editrice Lerici, e, negli ultimi anni, insieme a Daniela Negri, la rivista letteraria romana «Inchiostri». È stato finalista al Premio Strega nel 1971 e nel 1984.

È lungo l’elenco delle sue opere in narrativa: Il megalomane (1964), Professione mitomane (1971), entrambi con Vallecchi, Episodi di guerriglia urbana (1972), La famiglia Rosselli e Il naufragio dell’Andrea Doria, entrambi con Bompiani, nel 1983 e nel 1987, L’apparizione di Elsie (Theoria, 1989), La mia America e la tua (Theoria, 1995), Prove tecniche di follia (Empirìa, 2007), Boston, l’Aventino (Empirìa, 2007).

Uomo tormentato e sofferente, come del resto la cugina Amelia, soverchiati entrambi dal ricordo-incubo della fine tragica dei loro genitori, visse con dignità la sua malattia, fu amico di molti, amò e fu amato, e scrisse pagine memorabili che meriterebbero di essere ricordate più di quello che sono. Alcuni suoi racconti, tradotti in inglese dall’amico Luigi Attardi, vagano per il web alla ricerca di un editore. Ha vissuto in solitudine gli ultimi anni della sua vita, rimanendo in contatto con pochissimi amici.

Aldo Rosselli ha spesso dato il meglio di sé in un particolare genere letterario, nel romanzo-saggio, Continua a leggere

un seminario sulla prosa breve (che non c’è stato) _ [replica]

Lo scorso anno si sarebbero dovuti tenere in una casa privata dei seminari (di “lettere grosse“) sulla “prose très prose“, sulla prosa breve, sulla scrittura di ricerca. Qui a Roma. Una serie di imprevisti ha dirottato e poi reso irrealizzabile il progetto, ma lo schema di massima di quel che si sarebbe andati a fare e dire era grosso modo questo:

#1 cambio di paradigma
Fénéon non è Fargue. Ponge non è Michaux. Beckett non è Char. Tarkos non è Bonnefoy. Tutti leggiamo con passione Fargue, Michaux, Char, Bonnefoy. Ciò non toglie che in alcune scritture si sia verificato – o sia non illogicamente ravvisabile – un cambio di paradigma.

#2 googlism non è googling
Come funziona un sought text.

#3 alcuni luoghi comuni sfatati
Sfatiamo l’idea che l’asserzione sia il male. Che i testi freddi siano tutti “dopo il paradigma”. Che i testi freddi siano “anaffettivi” (o stupiderie simili). Che funzionino sempre. Che Costa scriva le stesse cose di Spatola. Che Costa scriva le stesse cose scritte da tutti gli autori di Tam Tam. Che la scrittura di ricerca sia tutta cut-up. Che cut-up e googlism siano sinonimi. Che cut-up, googlism e poche altre tecniche siano solo “tecniche”, e che rappresentino l’intero della scrittura di ricerca. Che il non detto, l’ombra e l’allegoria non possano essere “dopo il paradigma”. Che Corrado Costa sia giocoso (Costa è tragico, dunque è anche giocoso). Che l’opera di Giuliano Mesa sia risolvibile interamente entro i parametri del Modernismo. Che ci sia una qualche necessaria contraddizione fra tragedia e scritti “dopo il paradigma”. Che post-paradigma e postmoderno siano sinonimi. Che tutte le basi della scrittura “dopo il paradigma” siano state gettate dalle avanguardie vecchie e nuove. Che tra Gruppo 63 / Tel Quel e scritture nuove ci sia filiazione diretta e pacifica. Che la scrittura di ricerca sia “focused on language”. Che le scritture nuove siano sempre o spesso metatestuali.

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