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modernism in venice: “killing the moonlight”, by jennifer scappettone

As a city that seems to float between Europe and Asia, removed by a lagoon from the tempos of terra firma, Venice has long seduced the Western imagination. Since the 1797 fall of the Venetian Republic, fantasies about the sinking city have engendered an elaborate series of romantic clichés, provoking modern artists and intellectuals to construct conflicting responses: some embrace the resistance to modernity manifest in Venice’s labyrinthine premodern form and temporality, while others aspire to modernize by “killing the moonlight” of Venice, in the Futurists’ notorious phrase.
Spanning the history of literature, art, and architecture—from John Ruskin, Henry James, and Ezra Pound to Manfredo Tafuri, Italo Calvino, Jeanette Winterson, and Robert Coover—Killing the Moonlight tracks the pressures that modernity has placed on the legacy of romantic Venice, and the distinctive strains of aesthetic invention that resulted from the clash. Whether seduced or repulsed by literary clichés of Venetian decadence, post-Romantic artists found a motive for innovation in Venice. In Venetian incarnations of modernism, the anachronistic urban fabric and vestigial sentiment that both the nation-state of Italy and the historical avant-garde would cast off become incompletely assimilated parts of the new.

Killing the Moonlight brings Venice into the geography of modernity as a living city rather than a metaphor for death, and presents the archipelago as a crucible for those seeking to define and transgress the conceptual limits of modernism. In strategic detours from the capitals of modernity, Scappettone charts an elusive “extraterritorial” modernism that compels us to redraft the confines of modernist culture in both geographical and historical terms.

http://cup.columbia.edu/book/978-0-231-16432-0/killing-the-moonlight

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un ricordo di roberto roversi, oggi a bologna

oggi, mercoledì 26 giugno, ore 19:00 – 20:30
area A – Piazza Verdi piccola, Bologna

Duo Ciavatti Blandamura
Ricordo di Roberto Roversi

Con Nicola Muschitiello e Otello Ciavatti.
Partecipa Antonio Bagnoli.

(In questa occasione, verranno lette per la prima volta lettere inedite di Vittorini, Calvino, Sciascia e Pasolini, indirizzate a Roversi)

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scritture di ricerca: dopo il paradigma

Marco Giovenale

[…]

I. Per datare i cambiamenti: alcuni indizi

da una mail del 17 aprile 2012
a Jennifer Scappettone
[…]
I.0.
In questi giorni sto rileggendo Lacan, soprattutto Dei Nomi-del-Padre, e vado smontando e ricombinando (tenendo presente Rosselli) varie teorie o letture critiche, sulla base dei testi. Già quasi in incipit (p. 15 dell’edizione italiana a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi 2006): «Vediamo […] che cosa succede quando un nevrotico giunge all’esperienza analitica. Comincia anche lui a dire delle cose. […] In un primo momento crede di dover fare lui stesso il medico e di dover informare l’analista. Va da sé che nella vostra esperienza quotidiana lo riporterete al suo piano, dicendogli che non si tratta di questo, ma di parlare, e preferibilmente senza cercare di mettere un ordine, di dare un’organizzazione, vale a dire senza cercare di mettersi, secondo un ben noto narcisismo, al posto dell’interlocutore».
È proprio quanto fa, secondo un ben noto narcisismo, lo scrittore che non intende ragioni e vuol stare con entrambi i piedi al di qua del cambio di paradigma. E vuole (sadicamente: impone di) essere seguito dal lettore sul proprio terreno di regole e gioco. Incede nella propria retorica e chiede a gran voce il patto di reciproca illusione tra autore e lettore. Come se tutto fosse fisso, come se Lord Chandos fosse seppellito per sempre, e tutto si desse chiaro, stabilito: identità dei parlanti, di chi ascolta, del mondo nominato, variabili e costanti della comunicazione, linguaggio, metri e stili, accordi pregressi di codici, tutto coeso, tutto senza domanda. Al limite, questo narciso non ha bisogno di interlocutori, d’altro canto il “pubblico della poesia” è fatto (quasi tutto) di narcisi come lui.  (Anch’essi auctores, non a caso).

I.1.

L’impressione è che da circa mezzo secolo noi tutti siamo fuori da un “paradigma”. In occidente, almeno. (Paradigma è vocabolo sentito alternativamente o troppo invadente o troppo poco inclusivo, eccessivamente blando; dunque lo si assumerà come signum arbitrario da variare; al momento lo uso come puro termine convenzionale, e provvisorio).

Se un cambio di paradigma c’è stato (perfino in Italia), di fatto ci troviamo adesso in un altro/differente (o entro una serie di altri), che invece appunto ci include e determina. Siamo (nati) in un diverso paradigma che include/informa percezioni reazioni relazioni nel contesto o panorama occidentale, e nei testi che vi si producono. Tutto o moltissimo è cambiato intorno a noi e in noi anche per via di quel che è stato scritto e sentito e percepito e fatto e detto dall’inizio degli anni Sessanta. A me sembra che si sia pienamente (e contortamente) dentro un mutamento, o mutazione avvenuta e ancora in atto: ci siamo letteralmente nati, è stato la nostra placenta.

Eviterei di parlare di Modernismo come di Postmoderno. Anche se parlare, invece, di paradigmi è quanto meno fumoso. Ma qui non scrivo un “saggio”; qui semmai si dà per avviata (con puntini di sospensione all’inizio e alla fine) una sequenza di ipotesi e domande, più che risposte; si ragiona operando su un terreno che il ragionamento stesso tenta di preparare a un viaggio verso definizioni in larga parte da elaborare.

I.2.

Il cambio di paradigma sembra essere iniziato al principio degli anni Sessanta. Rosselli scrive Spazi metrici nel 1962, Antonio Porta Aprire nel 1960-61, Corrado Costa le prime poesie sul «verri» in quegli stessi anni. (Ma gli esempi sarebbero dozzine). Esce nel giugno 1962 Opera aperta, di Eco.

Rosselli chiude e castra razionalmente/musicalmente il metro italiano forzandolo in SPAZI metrici, Antonio Porta raffigura sì un delitto (dalle annotazioni ad Aprire, testo che conclude I Novissimi), la cui vittima è una donna (che è immaginabile lui tema); ma, pur facendo così, smembra l’io proprio, parlante: è totalmente preso dal disintegrare e disinnescare sia il racconto sia l’io che narra la storia. Corrado Costa è già al dopo, è collocabile in una diversa percezione, una diversa modulazione di testualità. Questo in verità sarà evidente soprattutto al principio degli anni Settanta, con Le nostre posizioni (1972). Costa a me sembra la figura centrale di una specie di consolidamento di posizioni poetiche, insieme a Spatola e a tutta l’area di scritture (non necessariamente rapite dalla sirena metatestuale) che formavano la costellazione sfrangiata delle neoavanguardie e delle tante linee di ricerca in quegli anni (spesso riunite in riviste effimere, contraddittorie: tutte però significative di una situazione).

Quelli di Rosselli e Porta sono testi ben diversi da quelli che poteva scrivere Sanguineti tra 1951 e ’61. Molto lontani. Continua a leggere