Archivi tag: scrittura di ricerca

glitches brew

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1. uno dei problemi o forse solo luoghi della scrittura, nello spazio di sovrapposizione degli insiemi cartaceo e digitale, è quello della trascrizione.

2. un autore con formazione nata in contesto gutenberghiano può realizzare testi in primis in formato cartaceo, come inventati e scritti a mano, o – indifferentemente o meno – come appunti tratti da fonti diverse e semplicemente presi da queste. in entrambi i modi, sia che si tratti di rilavorarli perché solo a penna, o di rielaborarli perché ‘rough’, deve spostarli da un contesto grafico a un altro, da un sistema di segni idiomatici e strettamente legati all’identità, a un contesto astratto e comunque riconfigurante, come è quello della pagina elettronica. senza questo spostamento è quasi impossibile pubblicare (se non nella forma della pagina manoscritta fotografata) il testo.

3. la trascrizione è una traduzione. (come tradurre è in assoluto trascrivere assai male). (tanto male da cadere in un’altra lingua, … infine in qualche modo contortamente pertinente).

4. nella traduzione, come nella trascrizione/edizione e rielaborazione di un testo ‘handwritten’, possono intervenire errori, deviazioni, anche tradimenti coscienti, e riscritture. manipolazioni – volontarie o meno – di segni che diventano altro da una pura traslazione linguistica A–>B.

5. traduciamo continuamente, e continuamente spostiamo di campo e di luogo tracce, segni. Continua a leggere

lettere grosse # 07

LG07

http://issuu.com/letteregrosse/docs/lg_07

http://letteregrosse.blogspot.it/2013/02/07.html

http://issuu.com/letteregrosse/docs/lg_07?mode=window&viewMode=doublePage

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the fall convergence on poetics

http://www.uwb.edu/mfa/fallconvergence

oggi a roma: andrea raos e gammm: i cani del chott-el-jerid e prosa in prosa

a Roma, OGGI, giovedì 6 settembre 2012, alle ore 18:00
 
presso la Libreria Koob
via Luigi Poletti 2 (davanti al Maxxi)
https://www.facebook.com/events/377893358947056/
 
il temerario sito gammm 
incurante dell’estate romana
 
presenta
 
Andrea Raos, I cani del Chott-el-Jerid
(Arcipelago, collana ChapBook)
 
 
sono presenti e intervengono:
Andrea Raos, Marco Giovenale, Fabio Teti, Michele Zaffarano
 
e in differita:
Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Andrea Inglese
 
 
nella lieta occasione si celebrano anche i 3 anni di sconcerto e crisi in cui il libro 
PROSA IN PROSA (Le Lettere, 2009) ha gettato l’Italia e l’Europa
 
  
(si avranno letture dal medesimo)
 
 
 §
andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (pieraldo, 2003) e luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori, salerno, oèdipus – collana liquid, 2007 e i cani dello chott el-jerid, milano, arcipelago, 2010. in uscita lettere nere. un’autografia. è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato l’antologia chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004); e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005) e «exit» (2005); e in traduzione inglese sul sito poetryinternational.org. partecipa ai progetti àkusma nazioneindiana.com.
 
libreria koob
via luigi poletti 2 – 00196 roma
tel. 06 45425109- http://www.koob.it

6 settembre, roma: andrea raos alla libreria koob

a Roma, giovedì 6 settembre 2012, alle ore 18:00
 
presso la Libreria Koob
via Luigi Poletti 2 (davanti al Maxxi)
 
il temerario sito gammm 
incurante dell’estate romana
 
presenta
 
Andrea Raos, I cani del Chott-el-Jerid
(Arcipelago, collana ChapBook)
 
 
saranno presenti e interverranno:
Andrea Raos, Marco Giovenale, Fabio Teti, Michele Zaffarano
 
e in differita:
Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Andrea Inglese
 
 
nella lieta occasione si celebreranno anche i 3 anni di sconcerto e crisi in cui il libro 
PROSA IN PROSA (Le Lettere, 2009) ha gettato l’Italia e l’Europa
 
&
 
si avranno letture dal medesimo
 
 
 §
andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (pieraldo, 2003) e luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori, salerno, oèdipus – collana liquid, 2007 e i cani dello chott el-jerid, milano, arcipelago, 2010. in uscita lettere nere. un’autografia. è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato l’antologia chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004); e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005) e «exit» (2005); e in traduzione inglese sul sito poetryinternational.org. partecipa ai progetti àkusma nazioneindiana.com.
libreria koob
via luigi poletti 2 – 00196 roma
tel. 06 45425109- http://www.koob.it

tracce di lavoro, domande

1. Se in effetti si è dato cambio di paradigma, come giudicare le (e come rapportarsi alle) scritture che lavorano non solo onestamente ma proprio sensatamente legittimamente proficuamente con strutture strumenti e modi precedenti quel cambiamento? Tutte le scritture che sembrano non tener conto del cambiamento gli sono veramente estranee? Oppure si può dire che, con strategie differenti, avanzano in altro modo in un territorio comunque anch’esso non più garantito da un paradigma (assertivo, narcisistico-autoriale, civile-e/o-lirico/egotico-e/o-realista)?

2. Forse non il cambio di paradigma in sé, ma già addirittura il percorso e i testi che a questo conducono implicano una crisi nel concetto classico (statico) di reading di poesia. E, questo, non solo perché molti nuovi testi sono installativi, o freddi, o spazializzati (=legati a una percezione visiva dello spazio della e nella pagina di carta o elettronica), o ipercomplessi e dunque non vebalizzabili. Non solo, dunque, perché smantellano un concetto semplificatorio di lettura lineare di testi lineari. Ma altresì perché – anche banalmente – uno degli assi portanti della scrittura di cambio di paradigma è la presa di distanza dallo spettacolo, in generale. (O almeno dallo spettacolo come magniloquenza).

3. Il cambio di paradigma sembra prendere distanza sia dallo spettacolo, dal ‘poeta’-dicitore attore, o performer o quant’altro; sia dal set di richieste lanciate da costui al pubblico (“datemi un feedback come ne dareste al vostro cantante preferito”, “elettrizzatevi”, “seguite il climax della mia lettura”, ecc.); sia da agganci e interpunzioni o segnature musicali e leziose, e da tutti i marcatori del performativo nel testo scritto. Come un testo di prosa in prosa azzera le esche facili del ‘poetico’ e le spazza via dalla pagina, così in generale un testo dopo il paradigma elide gli effetti di lacrimazione commozione partecipazione che derivano da quel ‘poetico’, sia esso inquadrabile come poesia civile, o splatter pseudoprovocatorio, o come oratoria paratelevisiva, o come captatio di altra specie. In che modo si configura dunque, dati questi elementi, una esposizione pubblica di un testo o di un’installazione verbale?

4. In che modo un testo dopo il paradigma registra o comporta una qualche problematicità nella sua scansione e struttura come libro? Com’è fatto un libro ora? Com’è la sua architettura, quando e se è (o si vuole) necessaria? L’inserimento di materiali non testuali (ma sonori, visivi) che forma assume e come interagisce con una parte solo testuale (se permane) nell’opera?

ashbery, dürer, accumulo

Il 14 marzo scorso, in occasione di una lettura a RadioTre, per il programma Chiodo fisso, a cura di Loredana Rotundo [testi / audio], ho letto una poesia di John Ashbery, Presagio, dalla raccolta Autoritratto in uno specchio convesso, offrendo qualche veloce annotazione critica, e poi connessioni di massima con tre frammenti dalla sequenza Camera di Albrecht, testo conclusivo del mio In rebus (Zona, 2012; cfr. anche NI).

Quello che si può ascoltare in rete sul sito Rai (cfr. sopra) è quanto detto direttamente al microfono. Quello che propongo qui di séguito è il file organizzato – ma non letto – per l’occasione, la traccia di fondo che ho tenuto presente per quel discorso.

Presagio, di John Ashbery, viene da una raccolta del 1973, uscita per Garzanti nel 1983 nella traduzione di Aldo Busi, con introduzione di Giovanni Giudici. Si intitola Autoritratto in uno specchio convesso, ed è forse tra le opere più facilmente definibili ‘icastiche’, definitorie, paradigmatiche, per dare un disegno della scrittura di Ashbery e delle sue caratteristiche stilistiche e tematiche.

Il vetro dei testi poetici entro cui sguardo e stile si specchiano è bombato, probabilmente opaco, e in questo suo aggiungere – dunque – imperfezioni e latenze e appunto opacità al ritratto, risulta paradossalmente più fedele e vicino al vero, al dato, ai fatti, rispetto alle ragioni di una ipotetica e irreale/irrealistica riproduzione o restituzione (sedicente fedele) delle cose.

Nel testo, fin dal principio vediamo che non è un elemento solido ma una duplice inafferrabilità a tenere la scena: una «brezza» e un «lago». Aria e acqua sono dunque i primi nomi che incontriamo. Poi «effetti da luna-park»: immaginiamo insomma questo ritratto di figura che dice noi e non io, al margine di un lago, perdersi nelle luci fasulle e piuttosto melanconiche del luna-park, che confondono le cose invece di illuminarle, e – dice la poesia – «evitano la sagoma beffarda / di dove saremmo se fossimo qui». La figura o profilo dell’io non solo subisce una dissipazione grammaticale in noi, ma è addirittura evitata, assente, manca (e se ci fosse, poi, sarebbe comunque «beffarda»).

Il testo continua con un «cammino troppo stretto» e figure davvero da luna-park, «un bruttone grande e grosso», una ridicola «ascia di platino marcata Excalibur». Ci troviamo in una situazione buffa, certo, fra trovarobato e iperbole (il «platino»…), ma si tratta anche di un contesto fortemente descrittivo – nel suo paradosso – della realtà più reale, più brutale, quella che banalmente fa dire (e la poesia non si sottrae a questa constatazione) che siamo di fronte «soltanto a giungle».

E di séguito viene la dichiarazione (definizione?) forse più magnetica/scultorea dell’intera poesia di John Ashbery: nell’immagine del disagio provato dal protagonista, che si sente come se qualcuno gli avesse «appena portato un’equazione», qualcosa di incontrovertibile e allo stesso tempo incomprensibile: proprio come la realtà, il circo, il luna-park, la giungla e, forse, esattamente la poesia. Qualcosa che poi in qualche modo si desidera «che continui», ma «senza / che nessuno venga leso», e con la volontà precisa che l’incerto, l’opaco, il fedele al reale proprio perché umbratile, riprenda, continui: è un «rimescolio» (shuffling in inglese), che si desidera continui «fra me e il mio lato della notte». Fra il buio delle cose e quello di un io che – replicato convesso nello specchio – sa e non sa, vuole e non vuole nominarsi, nominare.

L’ossessione di nominazione, di accumulo di dettagli (che per contrasto dissipano il paesaggio) tiene e domina il campo della scrittura fittamente elencativa di Albrecht Dürer, che nei primi anni del Cinquecento viaggia nei Paesi Bassi, e tiene un diario. Diario che torna, stravolto, in un testo che appunto si intitola Camera di Albrecht, che ho scritto nel 2008 e che nel 2009 è stato tra i vincitori del Premio Antonio Delfini. Esce in un libro, In rebus, per la casa editrice Zona. Da In rebus leggo appunto tre testi di Camera di Albrecht, che nel segno dei due nomi fatti (Ashbery e precisamente Dürer) vorrei includere nello stemma molteplice dell’accumulo, dell’ossessione di accumulo, della conseguente e proprio paradossale sdefinizione, e infine – come è ovvio per ogni Wunderkammer – della melanconia.

novissimi in soggettiva

Mi rendo conto di aver risposto solo parzialmente, perché in modo (contortamente) non-soggettivo, alla domanda del «verri» (n. 47, ott. 2011, pp. 16-18) su Avete letto i Novissimi?

Riprendo dunque il filo-parola velocemente per sintetizzare … in maniera più soggettiva (su blog, non a caso) e dire, se possibile a bassissima voce (in grigio), quanto segue:

– a 16/17 anni (siamo quindi tra l’85 e l’86) a mettermi più robustamente in una linea e desiderio di ricerca furono innanzitutto – come m’è capitato di dire più volte – Eliot e Montale (dunque sorvolo qui su nomi nodali per me come Cortàzar e Borges; resto ai versi);

– immediatamente la necessità è stata quella di una (qualche forma di) alterazione, alterità; penso di essermi, in questo, scavato una via obliqua indipendente, anche grazie ai sette o otto anni di pressoché completo silenzio che – fino al 1998 – mi sono imposto di interporre tra me e tanta parte degli scriventi e leggenti che a Roma in quegli anni si muovevano;

– quando in quegli stessi anni mi sono imbattuto per più strade e frammenti nelle scritture della neoavanguardia (che sentivo non così lontane, affatto, dalle Descrizioni in atto roversiane che dal 1990 leggevo); ho semplicemente detto a me stesso: «ecco, precisamente»;

– ho cioè avvertito, percepito, constatato, che quella via indipendente che pensavo per me valida assai assomigliava a quella di un’altra generazione, a me non vicina, o non vicinissima;

– sono gli stessi anni sono delle letture di Rosselli (e frequentazione di suoi reading) e Zanzotto;

– non troppo più tardi avrei letto/riletto Cagnone e Mesa; queste ultime annotazioni rendono più complesso, per non dire “esploso”, il quadro, tante sono le differenze tra le scritture citate; (e tanto differente, penso, risulta quello che a me è capitato poi di dire, poter dire).