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da una mail del 2018, su vocaboli, distribuzione, politica

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di questo sono convinto: molto più dei due terzi della popolazione ha nella testa il virus del fascismo, mes chers. indebellabile in qualche caso, in altri no. certo, interrogarsi su se e quando e quanto e come usare “fascismo” ha senso, anche se lo si fa in mancanza di un’altra parola.

però abolire del tutto il vocabolo ne ha meno.

è altrettanto certo che se tutto il vocabolario (qualsiasi parola e frase si riesca a far entrare nella comunicazione generalista e si rivolga all’interlocutore) deve giocoforza essere inserito nelle regole del gioco recenti, ossia nei tempi di rotazione dello scaffale degli slogan e hashtag e dell’efficacia social, allora è tutto un aprire e chiudere sportellini e caselline che passano di moda in una manciata di settimane, o meno, o poco più.

è come se ci sedessimo tutti in cerchio a giocare a tombola, e dopo l’estrazione di una dozzina di numeri passasse qualcuno a cambiare le cartelle a tutti. e poi daccapo. e continuamente, sempre. tutti infuriati, tutti che si domandano ma come si fa a giocare in questo modo? non si va da nessuna parte! ma è inutile irritarsi: il gioco ricomincia da capo. il distributore ci tiene impegnati, intanto fa i suoi affari.

chi ha un ufficio stampa (e false identità eccetera) che si occupa di gestire il turnover e accelerare i tempi di consunzione e obsolescenza dei materiali verbali, “vince”. ovvero sta sempre in cima all’effervescenza del vocabolario “giusto”. (perché la crea e diffonde lui).

a pensarci bene è un po’ la linea accentratrice delle aziende, anche in letteratura, non da oggi. Mondadori è editore e distributore. Feltrinelli è editore e distributore. voglio dire: in cima alla catena alimentare non sta l’onnivoro, ma il padrone del cibo e dei furgoni che portano il cibo. il produttore=distributore.

oggi non da solo. a pari efficacia e potere (forse con più efficacia, se non con più potere) sta il gestore della percezione del cibo. di cosa va mangiato e cosa no.

la gestione (massiva) della percezione della comunicazione (ossia delle parole) parrebbe in grado di influenzare perfino elezioni presidenziali non propriamente insignificanti

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is it time to change the name of what we do? is “poetry” still the right word?

i.0148, untitled, Marco Giovenale / differx

Marco Giovenale / differx, i.0148, untitled langrid ( = language grid), green and black ink on paper, cm 10,5×15, (maybe 2015)

a question i tried to keep open to answers and doubts, here:
https://www.facebook.com/differx/posts/10158506795252212

feel free to comment.

Is it time to change the name of what we do? Is “poetry” still the right word?

aperture e chiusure facilitate. (notilla su lessici e altro)

apertura e chiusura facilitata

Leggo o ascolto, in queste settimane ma ormai da qualche anno, da parte di giovani o giovanissimi autori, testi non ironici connotati dalla più assoluta non coscienza dell’esistenza di cliché retorici e lessicali non resuscitabili se non – appunto – in forma ironica.
Rimango ovviamente di sasso, e i sassi si possono o scagliare o usare per qualche costruzione. Provo per un’ennesima volta la seconda strada.
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