Archivio mensile:Ottobre 2012

lubomyr tymkiv, “dada poetry machine” + “asemic poetry machine”


[youtube=http://youtu.be/PDHgDeuhVl0]

At the opening of the exhibition Marco Giovenale “glyphs (and) encyclopaedia”, in the gallery “тимутопіяпрес” – Lviv, Ukraine, October 6, 2012).

Lubomyr Tymkiv made a kinetic machine N°1 (“dada poetry machine”) and N°2 (“asemic poetry machine”).

[ see also: the announcement & the shots ]

[ and: http://suxulf.blogspot.com/2012/10/marco-giovenale-glyphs-and-encyclopaedia.html
and http://suxulf.blogspot.com/2012/10/dada-poetry-machine-asemic-poetry.html ]



scheda refragged

  
patty pravo ci regala il ritratto, gli archetipi, diventa denaro contante:
un triangolo getta una sguardo su una laurea in lotta con il futuro, sul treno
la droga andrea bocelli è l’inizio di un rapporto simbiotico con gli aspetti più ancestrali di un presente parcheggiato
in 35 capitoli brevi, l’unico contatto con gli altri è dato dagli odori
fa anche lui la carne, l’abilità di paroliere, forte del sangue, nei pezzi per il suo gruppo, superandone i cliché
comincia a ribellarsi nascondendo i grandi interpreti italiani sotto la materia in cui attende con pazienza
comincia a rimandarlo in stallo
comincia come il rock migliore
comincia a nascondersi
comincia a mettersi all’opera accanto a lui
comincia a salvarli
tagli pregiatissimi di carne fuorisede per bologna, in uno spazio droga in cambio di patty pravo
patty pravo ci regala il gigante buono, leader dei negramaro, in un mondo ormai allucinato dove tutto appare possibile: la nuova scena italiana
bacia e morde gli agnellini sotto al suo letto a compartimenti stagni
sono gli archetipi
da allora il sangue non ha smesso di scorrere nel mattatoio, ogni settimana, orgoglioso, vive in un appartamento di via zamboni
adriano celentano, adesso un estraneo, vent’anni sulla pelle (amore e follia)
comincia a trasformarsi in ossessione
comincia a salvarli da giuliano sangiorgi
comincia a sgozzare un agnello con due ragazzi per jovanotti
fulminanti
diventa denaro contante
     

su punto critico (settembre e ottobre, ad oggi)

ottobre 2012

settembre 2012

al parco regionale dell’appia antica: domani

VANDANA SHIVA INCONTRA GLI ORTI E I GIARDINI CONDIVISI ROMANI

La biologa e economista indiana Vandana Shiva, eminente sostenitrice dell’agricoltura tradizionale e sociale e dei diritti dei contadini nel mondo, sarà a Roma martedì 9 ottobre, ospite del Parco Regionale dell’Appia Antica (http://seedfreedom.in/event/vandana-shiva-meets-the-urban-gardens-in-rome/).

Nel corso dell’incontro verrà lanciata la campagna mondiale “Seedfreedom” (http://seedfreedom.in/) per la difesa delle sementi tradizionali dalle mire delle multinazionali produttrici di organismi geneticamente modificati (OGM). È un’occasione imperdibile per incontrare una delle figure più importanti e qualificate che si battono per la difesa dei diritti dei popoli. Siete tutti invitati.

(La Segreteria del Centro di Cultura Ecologica)

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Orari: lunedì, mercoledì, venerdì e sabato dalle 10.00 alle 18,00
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CENTRO di CULTURA ECOLOGICA – ARCHIVIO AMBIENTALISTA
BIBLIOTECA “FABRIZIO GIOVENALE”
Casale ALBA 3 – Le Vaccherie
Parco Regionale Urbano di Aguzzano – Roma
Via Fermo Corni, snc – 00156 – Roma
tel.: 06.8270876 fax: 06.82084273
e-mail: info@centrodiculturaecologica.it
web: www.centrodiculturaecologica.it
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jack zipes, “la fiaba irresistibile” (donzelli, 2012)

http://www.donzelli.it/libro/2403/la-fiaba-irresistibile

dalla quarta di copertina:

Se c’è un genere che sin dalla notte dei tempi riesce a far presa sull’immaginazione degli esseri umani in ogni angolo della terra, quello è senza dubbio la fiaba. Eppure, malgrado il proliferare degli studi in materia, tuttora si stenta a ricostruirne le origini, l’evoluzione e i modi di diffusione. Perché mai la fiaba esercita da sempre un fascino irresistibile, quale che sia la forma o il mezzo attraverso cui giunge fino a noi?
Uno dei massimi studiosi a livello internazionale propone in queste pagine un originalissimo approccio allo studio della fiaba, nel tentativo di spiegare le ragioni del suo inesauribile propagarsi, fino a diventare parte essenziale delle culture di tutto il mondo, duttile al punto da prestarsi a continue reinvenzioni e ri-creazioni.
Attingendo alle scienze sociali e naturali, non meno che a quelle cognitive, alla psicologia evolutiva e alla biologia, Zipes rintraccia le origini della tradizione orale della fiaba nell’antichità, e ricostruisce la sua evoluzione dapprima nel passaggio alla scrittura e alla stampa, e via via attraverso i continui adattamenti ai nuovi mezzi di comunicazione, dal teatro al cinema, dalla tv all’animazione. In questo percorso un ruolo, spesso dimenticato, hanno avuto le donne: sia le tante raccoglitrici e narratrici di storie, sia i personaggi femminili che di queste storie, non a caso, sono protagoniste. In questo volume, un vero e proprio caposaldo della storia della fiaba, Zipes restituisce dunque spazio e voce a quella dimensione orale che solo i grandi folkloristi del XIX secolo hanno saputo valorizzare. Gli esseri umani non hanno mai smesso di raccontare storie, anche dopo l’invenzione della stampa, e disporsi ad ascoltarle è il primo passo per comprendere come mai nei secoli le fiabe ci sono divenute così familiari, quasi un’abitudine di tutti i giorni.

[replica] _ dietro le curvature

Considerate il teatro occidentale degli ultimi secoli: la sua funzione è essenzialmente quella di manifestare ciò che si ritiene segreto (i «sentimenti», le «situazioni», i «conflitti»), nascondendo gli artifici stessi di questa esteriorizzazione (i macchinari, le tele dipinte, il trucco, le sorgenti d’illuminazione). La scena all’italiana è lo spazio di questa menzogna: tutto accade in uno spazio furtivamente dischiuso, sorpreso, spiato, assaporato da uno spettatore celato nell’ombra. Questo spazio è teologico, è lo spazio della Colpa: da un lato, in una luce ch’egli finge di ignorare, sta l’attore – cioè il gesto e la parola –, dall’altro, nel buio della notte, il pubblico, ovvero la coscienza.

Roland Barthes, L’impero dei segni (1974),
tr. it. di M.Vallora, Einaudi, Torino 1984; 2004: p. 71.
Si sostituisca a «teatro» e «scena» la parola «poesia».



Da Affabulazione, di Pier Paolo Pasolini:

_

Ombra di Sofocle:

Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata. E perché?
Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata come le parole
che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato – come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita:
le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello.
Ora, in teatro, si parla come nella vita.

[…]

Se fossi stato solo un poeta,
te lo spiegherei con le sole parole!
Ma io sono più che un poeta; perciò
le parole non mi bastano; occorre che tu,
tuo figlio, lo veda come a teatro; occorre che tu completi
l’evocazione della parola con la presenza di lui,
in carne e ossa, magari mentre nudo fa l’amore
– o qualcuno di analogo a lui e, comunque anch’esso
in carne e ossa – con le sue membra scoperte.
Devi vederlo, non solo sentirlo;
non solo leggere il testo che lo evoca,
ma avere lui stesso davanti agli occhi. Il teatro
non evoca la realtà dei corpi con le sole parole
ma anche con quei corpi stessi…

Padre:

Ebbene?

Ombra di Sofocle:

L’uomo si è accorto della realtà
solo quando l’ha rappresentata.
E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla.

[…]

Padre:

Se le parole non bastano… c’è la realtà…

 […]

*

Sono qui, in Affabulazione, offerte le stesse osservazioni – chiaramente di origine aristotelica – che Pasolini fa, a proposito del cinema, in Empirismo eretico. Il carattere ostensivo tanto del teatro quanto del cinema è in linea di massima una sorta di verità autoevidente. Come il cinema, anche il teatro – pur se in misura diversa o ridotta – presenta il reale attraverso il reale. (So bene che i valori compressi o precipitati nel verbo «presenta» sono connotati alla radice da uno sguardo maschile). (Continuo, sapendolo).

In Affabulazione siamo però – in tutta evidenza – entro un teatro del tempo, della durata cronologica, della localizzazione. Siamo nel libero uso di (o in una teoria che comunque fa riferimento a) unità aristoteliche, appunto. Né disindividuazione né fuga dalla trama né dominio dei significanti sembrano in campo. Se il padre urla (e non balbetta) in scena, anche questo urlare è un significato. La pellicola lineare, la tessitura, trama, non salta. Né si è di fronte a uno smembramento vocalico puro di qualcosa che poteva pretendere di preesistere alla distruzione. Siamo semmai all’integro, integerrimo; ci troviamo in compagnia di realia pressoché intatti, per quanto ideologicamente (dati come) corrotti, che vengono significati da altri realia ancora – non meno integrali, nelle loro caratteristiche formali. E comunicative.

Comunicano, fra l’altro la realtà della regalità del figlio. Il regicida, nel rovesciamento pasoliniano, è infatti il padre. Il padre abbatte il vitalismo non solo del proprio figlio, ma di una generazione intera che si rifiuta perfino di interessarsi all’uccisione dei genitori. Il vecchio potere così anticipa, sopravanza e schiaccia il possibile o impossibile nuovo.

*

[Parentesi di domanda (a Pasolini, forse). Perché replicare – sia pure dal rovescio – la finzione quotidiana dell’impalcatura del reale, le convenzioni e convinzioni, in letteratura, in poesia? La scrittura non è semmai precisamente l’allontanamento? O, almeno, un allontanamento? È il bersaglio che si allontana e costringe l’osservatore-arciere a corrergli dietro, raddoppiando, moltiplicando la difficoltà del tiro. L’oggetto testuale è dietro un orizzonte non piatto, ma dovuto a (costituito da) una curvatura]

*

Se da un lato Pasolini e il teatro di dizione-parola-rappresentazione-realtà-contenuto (o oggi un teatro pop, o stancamente neo-artaudiano, o di narrazione) operano un raddoppiamento del reale, del reale interpretato, fanno mimesi del falso, o del costruito, dunque falsificazione al quadrato, almeno Pasolini studiava come inserire in tutto ciò il plastico (nelle troppe accezioni) che avrebbe minacciato e minato – a suo dire – quella fictio(n). Il trucco antitrucco.

Pasolini nella sua opera dava insomma, al (presunto) contenitore retorico semistabile (borghese), taluni contenuti instabili e aggressivi che supponeva lo avrebbero fatto saltare. (O: che Pasolini per primo vendeva a se stesso come capaci di farlo saltare).

Il teatro dell’aneddoto invece, quello dei contenuti-contenuti, specie se fatto da quelli che Bene chiamava caratteristi (oggi magari macchiettisti), era ed è spettacolo pieno (e spettacolo di uno spettacolo che ormai hanno/abbiamo introiettato: il falso essendo un momento di quel che chiamammo e chiamiamo vero).

A questo punto, da cosa sentire diversità? Da che punto del problema teatro far scattare la tagliola del problema per la poesia? (O: la tagliola del problema che la poesia in sé è?). (O: saranno questioni o problemi che si parlano e si implicano?).

Forse è, questo, un falso problema. O forse gli va trovata altra forma, esposizione. Personalmente qui solo un cenno:

i testi in versi e prosa portati all’Argentina il 28 marzo scorso (così come il lavoro di Babilonia Teatri, che trovo in qualche modo in risonanza) sono materiale dubbioso, dubitante; non strategicamente ma proprio originariamente umbratile/umbrifero. E, in quanto organismi, si spostano, penso: cioè non vanno verso il cosiddetto pubblico, verso i tiratori. E quell’arciere lì che già correva righe sopra [nella parentesi] deve correre ancora, e di più, se vuole anche solo individuare il segno. Per: spostarsi oltre la curvatura del discorso.

Shelter e In rebus sono testi che non vogliono fare la grazia, al pubblico, della finzione quadra a cui è già avvezzo.

prima di riproporre

prima di riproporre (tra pochi minuti) il post intitolato Dietro le curvature, uscito qualche tempo fa su slowforward e ora accresciuto con una citazione iniziale da Barthes, un cenno veloce a L’impero dei segni.

riprendendolo dopo vari anni, mi stupisco di osservare (e pure osservo) quanto questo libro di R.B. sembri riguardare precisamente

l’inconscio giapponese della scrittura (di ricerca) occidentale.

avanzando nella sua rilettura, trovo le definizioni migliori, o meno inadeguate, di tutto ciò a cui fino a ieri mi sembrava di non poter attribuire altro nome che “cambio di paradigma”.

ciò imporrebbe di citare passi molto ampi, cosa impossibile in questa sede ma da progettare in altre (non su carta).

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