Angelo Calandro
Sono un “reduce”. Ufficialmente. Reduce di un evento accaduto 40 anni fa. Reduce parziale e poi dirò perché.
40 anni fa avevo 24 anni. Allora (come ora) ero appassionato di poesia. Io sono originario di una piccola città del Sud e all’epoca, da circa un anno, mi ero trasferito per lavoro in una piccola città del Nord. Negli anni 70 per me, come per tanti ragazzi, Allen Ginsberg, era come una stella cometa. Poeta americano, figlio di immigrati russi di religione ebraica, fautore di una poesia di rottura che negli anni 50 aveva contribuito a scardinare un modo letterario compassato e un modo di vivere falso, ipocrita e acquiescente: quello che si sarebbe definito The American Way of Life. Allen Ginsberg, con i suoi amici poeti e letterati aveva scritto e vissuto in modo diverso lanciando un urlo contro quel mondo appena uscito da una terribile guerra e che si era tuffato anima e corpo in una guerra di tipo nuovo, contro il comunismo: impantanandosi in Corea e all’interno lanciandosi alla ricerca di pericolosi nemici tra personaggi del cinema, letterati e persone comuni: era l’America del Maccartismo, reazionaria, anticomunista viscerale, l’America della Commissione parlamentare che vagliava persino i respiri di tutti coloro che erano sotto il controllo dell’FBI di Edgar G. Hoover, uomo potente e capace di controllare milioni di persone.
In quell’America, tuttavia, c’erano degli anticorpi che si opponevano allo stato totalitario, al controllo delle coscienze.
Gli anticorpi erano un gruppo di persone formato da poeti, scrittori, intellettuali, spesso figli di immigrati.
Ginsberg, figlio di immigrati comunisti russi di religione ebraica.
Kerouac, figlio di immigrati franco-canadesi di religione cattolica.
Gregory Corso, figlio di immigrati italiani (calabresi), ladruncolo redento.
Lawrence Ferlinghetti, figlio di padre italiano (bresciano) che aveva cambiato il cognome in Ferling; sicchè Larry scoprì le sue vere origini italiane solo intorno ai 20 anni.
Diane Di Prima, figlia di immigrati italiani anch’essa.
Le idee di questi artisti fuori dalle regole vennero poi conosciute dal grande pubblico per la rilevanza che ebbero i processi intentati contro alcuni di essi: in particolare Ginsberg, per il testo del poema Howl e Ferlinghetti, in qualità di editore che lo pubblicò, furono incriminati per tentativo di corruzione di minori che fossero incidentalmente venuti a contatto con quei testi. Miserabile tentativo di censura che un giudice coraggioso cancellò dichiarando i temi oggetto del poema di rilevante importanza per la libertà di pensiero.
Tutto ciò aveva naturalmente portato l’attenzione generale sulle giovani generazioni che in quegli anni erano diventate protagoniste di battaglie civili e di libertà nel mondo della scuola e nella società in genere, avversando le guerre che ancora pullulavano nel mondo anche dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sia l’America che l’Europa (compresa quella dell’Est) erano attraversate da nuove idee e alcuni dei Beat (soprattutto Ginsberg, guru assoluto) ne erano portavoci e partecipanti attivi.
In questo clima effervescente, nuovo e radicale, in Italia a metà egli anni settanta si ebbe l’apice di questi movimenti; e la poesia ne faceva parte perché – dopo la stasi creativa di fine ’60 e inizio ’70 – l’ambito poetico abbracciava potentemente le esigenze performative e artistiche di molti giovani.
Il Primo Festival Internazionale dei Poeti. Castelporziano, spiaggia libera, Cancello 8.
L’evento nasce da un idea di alcune persone che negli anni precedenti avevano sperimentato e lanciate le letture pubbliche di poesie mediante performance che si tenevano in piccoli locali, vere e proprie cantine trasformate in teatri. Simone Carella, Ulisse Benedetti e Franco Cordelli coinvolsero l’Assessore alla Cultura dell’epoca Renato Nicolini e lanciarono l’idea di convocare decine di poeti, italiani e stranieri, a leggere i loro versi di sera sulla spiaggia di Castelporziano davanti al mare.
Franco Cordelli ha raccontato tutto questo, prima nel 1978 in Poeta postumo (edito da Lerici e nel 2008 dalla casa editrice Le lettere); poi più recentemente in Proprietà perduta, dove c’è il racconto dei giorni del festival.
Il festival dunque, programmato per fine giugno del 1979, suscitò subito interesse. I giornali ne parlarono diffusamente. “Lotta Continua”, l’unico giornale della Nuova Sinistra scampato ai cataclismi seguiti alla stagione del terrorismo (ricordiamoci che l’anno prima c’era stato il rapimento e l’omicidio di Moro da parte delle BR), ebbe un inserto giornaliero “Quotidiana di Poesia”.
Io ero andato al festival perché attirato certamente dalla presenza del poeta-guru della nostra generazione: Allen Ginsberg, con il corollario dei suoi amici americani. Lui avevo avuto modo di vederlo/ascoltarlo in una magnifica serata al Macondo di Milano, un locale che era una sorta di antesignano dei centri sociali, che aveva tra i fondatori anche Mauro Rostagno, giornalista a suo tempo tra i fondatori di “Lotta Continua”, e che si era allontano per altre esperienze, la successiva delle quali fu l’apertura di una comunità religiosa alternativa nel trapanese che ebbe come obiettivo il recupero di persone tossicodipendenti ma anche quello di combattere la mafia. E la mafia infatti lo assassinò nel 1988 a causa delle sue inchieste trasmesse in una TV locale.
La mia personale passione per la poesia aveva prodotto in età giovanile una lettura pubblica nel Teatro Comunale della mia città nel corso di una serata indetta da un Circolo della sinistra cosiddetta extraparlamentare dell’epoca. Un altro evento ci sarebbe dovuto essere il 16 marzo del 1978, in maniera più raccolta e tutta dedicata alle letture poetiche. Ma quello fu il giorno del rapimento di Aldo Moro e tutto fu travolto da quegli avvenimenti. Dopo di allora non ho più fatto letture, anzi non ho fatto più leggere nulla di nulla a nessuno. La passione è comunque continuata nei decenni.
E a proposito del giorno del rapimento Moro, ricordo che è uno dei due avvenimenti che sono impressi con precisione nella memoria, insieme al giorno dell’assassinio di Pasolini. Ricordo perfettamente cosa stavo facendo e dov’ero nel momento della conoscenza di questi fatti. Sono quegli avvenimenti della vita di una nazione nei quali la profonda immedesimazione delle persone agli eventi stessi costituiscono elemento portante del sentire comune. E il rapimento Moro segnò indelebilmente la sconfitta della mia generazione. La reazione dello Stato fu pesante e mise in ginocchio tutte le forze resistenti e libertarie oltre che le forme terroristiche in campo.
Ma tornando a Castelporziano, al festival c’erano anche molti poeti italiani: alcuni che conoscevo e altri dei quali avrei capito solo dopo la valenza e importanza.
Ero insomma andato, da appassionato, per la poesia. La kermesse, affascinante come idea (leggere versi con lo sfondo del mare al tramonto e nella notte), si risolse, però, quasi da subito in una grande, ritardata, eccessiva copia di quelle che erano state le feste del proletariato giovanile; come quelle che alcuni anni prima, tra il 1975 e il 1976 (a Licola vicino Napoli, e al Parco Lambro di Milano) avevano connotato il desiderio di misurarsi/vedersi/contarsi di molti giovani. E stavolta lo facevano, dispettosamente, perché la furbesca voce della presenza di Patti Smith li aveva attirati in un luogo dove la poesia e non la musica sarebbe stata la regina.
Insomma tanta gente era lì ma non aveva nulla a che fare con la poesia.
Ciò portò alle confusioni, ai minestroni, alle cacciate dei poeti veri, al crollo del palco.
Io che ero lì per la poesia, il secondo giorno decisi che tutto ciò non era ciò che volevo. E me ne andai. I miei amici Ugo e Amerigo sono rimasti fino alla fine e hanno condiviso la confusione e lo smarrimento: assistevano a qualcosa che andava oltre quello che avrebbero voluto vedere. Il primo giorno dopo essere arrivati al luogo destinato al festival passammo la giornata a bruciarci al sole, entrare in acqua a rinfrescarci e girare per quella che era la platea ad osservare i partecipanti, freakkettoni, intellettuali, scoppiati, nudisti, giornalisti e molto altro.
Victor Cavallo, un giovane attore d’avanguardia e poeta (frequentatore anch’esso dei palchi delle cantine, del Beat 72) fu il conduttore delle serate. Avevo visto alcune sue foto e letto alcune sue poesie su una rivista giovanile e nel pomeriggio rovente del 28 giugno 1979 ci si parò davanti all’improvviso, con un bottiglione di vino bianco tra le mani, ubriaco il giusto; si accasciò sulle ginocchia chiedendoci “Ma il palco ‘ndo cazzo sta?”. Il palco era lì davanti a lui, cioè alle nostre spalle ma la mistura di caldo, sole, vino e chissà cos’altro gli coprivano la visuale. Ridemmo e facemmo segno alla costruzione in tubi innocenti. Qualche parola e poi lui riprese il cammino verso la sua destinazione. Victor non riuscì a tenere il palco; chiunque si avvicinasse prendeva la parola, anche fuori dalle modalità previste, e sproloquiava. A tutti è rimasta impressa la sequenza della “ragazza cioè”, una giovane dall’accento napoletano che in costume e t-shirt interrompeva chiunque con certi vaneggiamenti intervallati dalla congiunzione “cioè”.
Nei giorni successivi gli americani provarono a governare con più fermezza e regole rigide l’intervallarsi delle letture, riuscendo così a consentire il parziale svolgimento delle serate. La presenza debordante del pubblico ovviamente era da freno e diversione alle letture.
Questa presenza aumentò anche sul palco fino a provocarne il dolce crollo su stesso.
Il mio amico Ugo aveva appena stretto la mano a Gregory Corso.
Una considerazione. Tra i poeti presenti sul palco quei giorni ci fu una modesta presenza di epigoni italiani della Beat Generation; si trattava per lo più di dilettanti che cercavano un palcoscenico di prestigio. In effetti nessuno degli italiani richiamava apertamente i Beat. Quei poeti erano altro e altrove, diversi di loro diventeranno importanti con il tempo.
Aldo Piromalli fu uno di quegli epigoni italiani; riesce a leggere la prima sera una sua composizione dal titolo “Affanculo”. Piromalli viveva ad Amsterdam dove ritornò al termine del festival.
Victor Cavallo non lesse nulla ma mi piace pensarlo come uno dei pochissimi che avevano percorso un sentiero poetico alternativo, finendo poi per essere assorbito completamente dal lavoro di attore. Aveva iniziato come tanti da protagonista nelle cantine, in quel periodo formativo per tanti, negli anni 70. Non ha mai pubblicato un libro in vita. Morto nel 2000, i suoi amici trovarono poesie e prosette e decisero di pubblicarle. Nel 2003 uscì Ecchime, un libriccino edito da Stampa Alternativa. Quello stesso anno si tenne un suo ricordo a Campo de’ Fiori, sotto la statua di Giordano Bruno, al quale chi volesse avrebbe potuto leggere qualcosa. Ricordo che vi partecipai e c’era anche Mario Martone e molti altri che poi avrei reincontrato come poeti veri negli anni e decenni successivi.
Per concludere. Anche da noi sta emergendo da qualche anno una serie di scrittori/scrittrici stranieri o immigrati di prima e/o seconda generazione che scrivono nella nostra lingua. È l’inevitabile corollario all’inserimento nel nostro tessuto sociale di persone provenienti da luoghi e nazioni diverse per cultura e lingua. Alcuni di loro iniziano ad assumere un ruolo particolare nel panorama letterario: ad esempio la polacca Helena Janeczek (vincitrice del Premio Strega, il più importante premio letterario italiano), Jhumpa Lahiri (di nascita inglese, di origini indiane, vissuta negli Stati Uniti e poi in Italia), Amara Lakous (algerino), Igiaba Sciego (italiana di origini somale), Anilda Ibrahimi (albanese).
Nessuno però si occupa di poesia. Come invece abbiamo visto fecero certi figli di immigrati negli Stati Uniti che contribuirono a cambiare anche il corso della storia sociale di quel paese.
Ma forse la lingua della poesia in Italia ha una percezione particolare delle cose; è più difficile entrarci per appropriarsi del significato profondo delle parole. I Beat negli anni 50 partirono, invece, da una scrittura che riproduceva molto lo slang e il parlato gergale quotidiano.
Ma questa è un’altra storia.
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Questo è un ricordo parziale, per niente rilevante e che a distanza di anni risulta essere meno enfatico di molti altri ricordi che si sono sentiti e che si sentono in questo periodo. È certo che a distanza di tempo l’aspetto letterario di rottura è sembrato prevalere fortemente sull’accadimento stesso. In fondo che meravigliosa conclusione il crollo del palco!
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Per chiudere voglio proporvi un piccolo componimento di qualche anno fa scritto per ricordare quel pazzo festival internazione dei poeti di Castelporziano.
Ho aspettato i poeti sulla spiaggia,
Un vetrino del mio laboratorio,
Sul quale evocare un alfabeto divino e comprensibile,
senza Dio, i santi e altri intermediari.
Non sono mai arrivati,
il plotone rivoluzionario è rimasto all’Enalc Hotel
a distinguere tra il ricco scrittore bianco
il poeta ebreo russofono,
il sovietico maramaldo di regime,
un poeta nero e negro
e poeti italiani sparsi come briciole di pane.
L’Assessore comunista dal sorriso sarcastico
Ha rinnovato l’invito a giocare col mondo.
La Quotidiana di Poesia, supplemento letterario
Alla continua lotta contro decantati Sistemi,
descrive l’accadimento durante l’accadimento.
Altri parlano, bevono, fumano
Poi dilagano in una insopportabile ciancerìa.
Sì, il ticket di americani
Riuscirà per un poco a calmarne le urla.
Poi, crollato il palco
Finalmente si rivede il mare di Castelporziano.
Angelo Calandro