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tracce di lavoro, domande

1. Se in effetti si è dato cambio di paradigma, come giudicare le (e come rapportarsi alle) scritture che lavorano non solo onestamente ma proprio sensatamente legittimamente proficuamente con strutture strumenti e modi precedenti quel cambiamento? Tutte le scritture che sembrano non tener conto del cambiamento gli sono veramente estranee? Oppure si può dire che, con strategie differenti, avanzano in altro modo in un territorio comunque anch’esso non più garantito da un paradigma (assertivo, narcisistico-autoriale, civile-e/o-lirico/egotico-e/o-realista)?

2. Forse non il cambio di paradigma in sé, ma già addirittura il percorso e i testi che a questo conducono implicano una crisi nel concetto classico (statico) di reading di poesia. E, questo, non solo perché molti nuovi testi sono installativi, o freddi, o spazializzati (=legati a una percezione visiva dello spazio della e nella pagina di carta o elettronica), o ipercomplessi e dunque non vebalizzabili. Non solo, dunque, perché smantellano un concetto semplificatorio di lettura lineare di testi lineari. Ma altresì perché – anche banalmente – uno degli assi portanti della scrittura di cambio di paradigma è la presa di distanza dallo spettacolo, in generale. (O almeno dallo spettacolo come magniloquenza).

3. Il cambio di paradigma sembra prendere distanza sia dallo spettacolo, dal ‘poeta’-dicitore attore, o performer o quant’altro; sia dal set di richieste lanciate da costui al pubblico (“datemi un feedback come ne dareste al vostro cantante preferito”, “elettrizzatevi”, “seguite il climax della mia lettura”, ecc.); sia da agganci e interpunzioni o segnature musicali e leziose, e da tutti i marcatori del performativo nel testo scritto. Come un testo di prosa in prosa azzera le esche facili del ‘poetico’ e le spazza via dalla pagina, così in generale un testo dopo il paradigma elide gli effetti di lacrimazione commozione partecipazione che derivano da quel ‘poetico’, sia esso inquadrabile come poesia civile, o splatter pseudoprovocatorio, o come oratoria paratelevisiva, o come captatio di altra specie. In che modo si configura dunque, dati questi elementi, una esposizione pubblica di un testo o di un’installazione verbale?

4. In che modo un testo dopo il paradigma registra o comporta una qualche problematicità nella sua scansione e struttura come libro? Com’è fatto un libro ora? Com’è la sua architettura, quando e se è (o si vuole) necessaria? L’inserimento di materiali non testuali (ma sonori, visivi) che forma assume e come interagisce con una parte solo testuale (se permane) nell’opera?

ashbery, dürer, accumulo

Il 14 marzo scorso, in occasione di una lettura a RadioTre, per il programma Chiodo fisso, a cura di Loredana Rotundo [testi / audio], ho letto una poesia di John Ashbery, Presagio, dalla raccolta Autoritratto in uno specchio convesso, offrendo qualche veloce annotazione critica, e poi connessioni di massima con tre frammenti dalla sequenza Camera di Albrecht, testo conclusivo del mio In rebus (Zona, 2012; cfr. anche NI).

Quello che si può ascoltare in rete sul sito Rai (cfr. sopra) è quanto detto direttamente al microfono. Quello che propongo qui di séguito è il file organizzato – ma non letto – per l’occasione, la traccia di fondo che ho tenuto presente per quel discorso.

Presagio, di John Ashbery, viene da una raccolta del 1973, uscita per Garzanti nel 1983 nella traduzione di Aldo Busi, con introduzione di Giovanni Giudici. Si intitola Autoritratto in uno specchio convesso, ed è forse tra le opere più facilmente definibili ‘icastiche’, definitorie, paradigmatiche, per dare un disegno della scrittura di Ashbery e delle sue caratteristiche stilistiche e tematiche.

Il vetro dei testi poetici entro cui sguardo e stile si specchiano è bombato, probabilmente opaco, e in questo suo aggiungere – dunque – imperfezioni e latenze e appunto opacità al ritratto, risulta paradossalmente più fedele e vicino al vero, al dato, ai fatti, rispetto alle ragioni di una ipotetica e irreale/irrealistica riproduzione o restituzione (sedicente fedele) delle cose.

Nel testo, fin dal principio vediamo che non è un elemento solido ma una duplice inafferrabilità a tenere la scena: una «brezza» e un «lago». Aria e acqua sono dunque i primi nomi che incontriamo. Poi «effetti da luna-park»: immaginiamo insomma questo ritratto di figura che dice noi e non io, al margine di un lago, perdersi nelle luci fasulle e piuttosto melanconiche del luna-park, che confondono le cose invece di illuminarle, e – dice la poesia – «evitano la sagoma beffarda / di dove saremmo se fossimo qui». La figura o profilo dell’io non solo subisce una dissipazione grammaticale in noi, ma è addirittura evitata, assente, manca (e se ci fosse, poi, sarebbe comunque «beffarda»).

Il testo continua con un «cammino troppo stretto» e figure davvero da luna-park, «un bruttone grande e grosso», una ridicola «ascia di platino marcata Excalibur». Ci troviamo in una situazione buffa, certo, fra trovarobato e iperbole (il «platino»…), ma si tratta anche di un contesto fortemente descrittivo – nel suo paradosso – della realtà più reale, più brutale, quella che banalmente fa dire (e la poesia non si sottrae a questa constatazione) che siamo di fronte «soltanto a giungle».

E di séguito viene la dichiarazione (definizione?) forse più magnetica/scultorea dell’intera poesia di John Ashbery: nell’immagine del disagio provato dal protagonista, che si sente come se qualcuno gli avesse «appena portato un’equazione», qualcosa di incontrovertibile e allo stesso tempo incomprensibile: proprio come la realtà, il circo, il luna-park, la giungla e, forse, esattamente la poesia. Qualcosa che poi in qualche modo si desidera «che continui», ma «senza / che nessuno venga leso», e con la volontà precisa che l’incerto, l’opaco, il fedele al reale proprio perché umbratile, riprenda, continui: è un «rimescolio» (shuffling in inglese), che si desidera continui «fra me e il mio lato della notte». Fra il buio delle cose e quello di un io che – replicato convesso nello specchio – sa e non sa, vuole e non vuole nominarsi, nominare.

L’ossessione di nominazione, di accumulo di dettagli (che per contrasto dissipano il paesaggio) tiene e domina il campo della scrittura fittamente elencativa di Albrecht Dürer, che nei primi anni del Cinquecento viaggia nei Paesi Bassi, e tiene un diario. Diario che torna, stravolto, in un testo che appunto si intitola Camera di Albrecht, che ho scritto nel 2008 e che nel 2009 è stato tra i vincitori del Premio Antonio Delfini. Esce in un libro, In rebus, per la casa editrice Zona. Da In rebus leggo appunto tre testi di Camera di Albrecht, che nel segno dei due nomi fatti (Ashbery e precisamente Dürer) vorrei includere nello stemma molteplice dell’accumulo, dell’ossessione di accumulo, della conseguente e proprio paradossale sdefinizione, e infine – come è ovvio per ogni Wunderkammer – della melanconia.

novissimi in soggettiva

Mi rendo conto di aver risposto solo parzialmente, perché in modo (contortamente) non-soggettivo, alla domanda del «verri» (n. 47, ott. 2011, pp. 16-18) su Avete letto i Novissimi?

Riprendo dunque il filo-parola velocemente per sintetizzare … in maniera più soggettiva (su blog, non a caso) e dire, se possibile a bassissima voce (in grigio), quanto segue:

– a 16/17 anni (siamo quindi tra l’85 e l’86) a mettermi più robustamente in una linea e desiderio di ricerca furono innanzitutto – come m’è capitato di dire più volte – Eliot e Montale (dunque sorvolo qui su nomi nodali per me come Cortàzar e Borges; resto ai versi);

– immediatamente la necessità è stata quella di una (qualche forma di) alterazione, alterità; penso di essermi, in questo, scavato una via obliqua indipendente, anche grazie ai sette o otto anni di pressoché completo silenzio che – fino al 1998 – mi sono imposto di interporre tra me e tanta parte degli scriventi e leggenti che a Roma in quegli anni si muovevano;

– quando in quegli stessi anni mi sono imbattuto per più strade e frammenti nelle scritture della neoavanguardia (che sentivo non così lontane, affatto, dalle Descrizioni in atto roversiane che dal 1990 leggevo); ho semplicemente detto a me stesso: «ecco, precisamente»;

– ho cioè avvertito, percepito, constatato, che quella via indipendente che pensavo per me valida assai assomigliava a quella di un’altra generazione, a me non vicina, o non vicinissima;

– sono gli stessi anni sono delle letture di Rosselli (e frequentazione di suoi reading) e Zanzotto;

– non troppo più tardi avrei letto/riletto Cagnone e Mesa; queste ultime annotazioni rendono più complesso, per non dire “esploso”, il quadro, tante sono le differenze tra le scritture citate; (e tanto differente, penso, risulta quello che a me è capitato poi di dire, poter dire).

 

 

oggi sul “manifesto”: recensione a G.Marzaioli, “Voci di seconda fase” (e “Fusione di terza fase”)

oggi sul “manifesto” (p. 11)

Giulio Marzaioli, brevi prose fuori sincrono


Le prose di Voci di seconda fase, che Giulio Marzaioli pubblica nella collana ChapBook delle edizioni Arcipelago (pp. 28, euro 3), fanno riferimento al progetto – appunto in «fasi» – iniziato dall’autore con la plaquette Moduli di prima fase (La camera verde)…

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20111122/manip2pg/11/manip2pz/313733/

Quattro categorie più una: “loose writing”

Come esistono spostamenti del continente “testo narrativo”, quando accade che blocchi interi di romanzi, o famiglie di autori, che nel tempo e con lo smarginarsi o vicendevole divorarsi delle teorie fanno massa coesa o si disintegrano e – in una ideale deriva dei continenti alfabetici – assumono una diversa configurazione in quello che pensiamo essere un buon rilievo cartografico delle scritture, così si può dire che le teorie stesse, scogliere intere di definizioni, rupi di criticism, possono compattarsi, franare, emergere, collidere (non nella realtà-realtà, fortuna vuole; sì nella più concreta realtà dei segni che ci costruiamo, a proposito della realtà-realtà).

A questo proposito – con io meno critico che autoriale – vorrei suggerire (o dire che vedo, vedrei, penso di vedere) proprio un conflittuale compattamento.

In questi tempi vedo, osservo – e suggerisco – il darsi di una imperfetta ma forse non infelice unione tra categorie o schegge di generi che, considerate poi singolarmente, possono anche non aver ricevuto di fatto una organizzazione e definizione condivisa, ed essere al limite in movimento, addirittura “all’avanguardia”, o perfino di là da venire, in sostanza inespresse. E tuttavia, ancora non espresse e allineate dai critici in elenco, unirsi. Si uniscono. O possono esser passibili di presentazione di gruppo.

Allora ne assommo / accorpo / unisco – o vedo unite – cinque, ora:


– new sentence (Silliman)

– prosa in prosa (Gleize)

– googlism, flarf (Mohammad)

– scrittura concettuale (Goldsmith)

 loose writing

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