lettura da In rebus, martedì 28 agosto,
su Radio3 Suite, intorno alle ore 22:00
stay tuned
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1. Se in effetti si è dato cambio di paradigma, come giudicare le (e come rapportarsi alle) scritture che lavorano non solo onestamente ma proprio sensatamente legittimamente proficuamente con strutture strumenti e modi precedenti quel cambiamento? Tutte le scritture che sembrano non tener conto del cambiamento gli sono veramente estranee? Oppure si può dire che, con strategie differenti, avanzano in altro modo in un territorio comunque anch’esso non più garantito da un paradigma (assertivo, narcisistico-autoriale, civile-e/o-lirico/egotico-e/o-realista)?
2. Forse non il cambio di paradigma in sé, ma già addirittura il percorso e i testi che a questo conducono implicano una crisi nel concetto classico (statico) di reading di poesia. E, questo, non solo perché molti nuovi testi sono installativi, o freddi, o spazializzati (=legati a una percezione visiva dello spazio della e nella pagina di carta o elettronica), o ipercomplessi e dunque non vebalizzabili. Non solo, dunque, perché smantellano un concetto semplificatorio di lettura lineare di testi lineari. Ma altresì perché – anche banalmente – uno degli assi portanti della scrittura di cambio di paradigma è la presa di distanza dallo spettacolo, in generale. (O almeno dallo spettacolo come magniloquenza).
3. Il cambio di paradigma sembra prendere distanza sia dallo spettacolo, dal ‘poeta’-dicitore attore, o performer o quant’altro; sia dal set di richieste lanciate da costui al pubblico (“datemi un feedback come ne dareste al vostro cantante preferito”, “elettrizzatevi”, “seguite il climax della mia lettura”, ecc.); sia da agganci e interpunzioni o segnature musicali e leziose, e da tutti i marcatori del performativo nel testo scritto. Come un testo di prosa in prosa azzera le esche facili del ‘poetico’ e le spazza via dalla pagina, così in generale un testo dopo il paradigma elide gli effetti di lacrimazione commozione partecipazione che derivano da quel ‘poetico’, sia esso inquadrabile come poesia civile, o splatter pseudoprovocatorio, o come oratoria paratelevisiva, o come captatio di altra specie. In che modo si configura dunque, dati questi elementi, una esposizione pubblica di un testo o di un’installazione verbale?
4. In che modo un testo dopo il paradigma registra o comporta una qualche problematicità nella sua scansione e struttura come libro? Com’è fatto un libro ora? Com’è la sua architettura, quando e se è (o si vuole) necessaria? L’inserimento di materiali non testuali (ma sonori, visivi) che forma assume e come interagisce con una parte solo testuale (se permane) nell’opera?
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Non diversamente, il testo (anche non) dopo il paradigma non può essere incontrato – tantomeno “trovato” – attraverso un’analisi o scansione dei suoi presunti elementi, o per via di frazionamenti successivi, ma AMBIENTANDOSI al suo interno. Percorrendolo. Dunque percorrendone anche le fratture, ma come coestese al clima complessivo che quel testo induce e costruisce, dissemina.
[ prose, tabulazioni: 2005-12 ]
sequenza di testi su issuu/differx
[ anche stampabili/ordinabili attraverso peecho.com ]
Considerate il teatro occidentale degli ultimi secoli: la sua funzione è essenzialmente quella di manifestare ciò che si ritiene segreto (i «sentimenti», le «situazioni», i «conflitti»), nascondendo gli artifici stessi di questa esteriorizzazione (i macchinari, le tele dipinte, il trucco, le sorgenti d’illuminazione). La scena all’italiana è lo spazio di questa menzogna: tutto accade in uno spazio furtivamente dischiuso, sorpreso, spiato, assaporato da uno spettatore celato nell’ombra. Questo spazio è teologico, è lo spazio della Colpa: da un lato, in una luce ch’egli finge di ignorare, sta l’attore – cioè il gesto e la parola –, dall’altro, nel buio della notte, il pubblico, ovvero la coscienza.
Da Affabulazione, di Pier Paolo Pasolini:
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Ombra di Sofocle:
Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata. E perché?
Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata come le parole
che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato – come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita:
le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello.
Ora, in teatro, si parla come nella vita.
[…]
Se fossi stato solo un poeta,
te lo spiegherei con le sole parole!
Ma io sono più che un poeta; perciò
le parole non mi bastano; occorre che tu,
tuo figlio, lo veda come a teatro; occorre che tu completi
l’evocazione della parola con la presenza di lui,
in carne e ossa, magari mentre nudo fa l’amore
– o qualcuno di analogo a lui e, comunque anch’esso
in carne e ossa – con le sue membra scoperte.
Devi vederlo, non solo sentirlo;
non solo leggere il testo che lo evoca,
ma avere lui stesso davanti agli occhi. Il teatro
non evoca la realtà dei corpi con le sole parole
ma anche con quei corpi stessi…
Padre:
Ebbene?
Ombra di Sofocle:
L’uomo si è accorto della realtà
solo quando l’ha rappresentata.
E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla.
[…]
Padre:
Se le parole non bastano… c’è la realtà…
[…]
*
Sono qui, in Affabulazione, offerte le stesse osservazioni – chiaramente di origine aristotelica – che Pasolini fa, a proposito del cinema, in Empirismo eretico. Il carattere ostensivo tanto del teatro quanto del cinema è in linea di massima una sorta di verità autoevidente. Come il cinema, anche il teatro – pur se in misura diversa o ridotta – presenta il reale attraverso il reale. (So bene che i valori compressi o precipitati nel verbo «presenta» sono connotati alla radice da uno sguardo maschile). (Continuo, sapendolo).
In Affabulazione siamo però – in tutta evidenza – entro un teatro del tempo, della durata cronologica, della localizzazione. Siamo nel libero uso di (o in una teoria che comunque fa riferimento a) unità aristoteliche, appunto. Né disindividuazione né fuga dalla trama né dominio dei significanti sembrano in campo. Se il padre urla (e non balbetta) in scena, anche questo urlare è un significato. La pellicola lineare, la tessitura, trama, non salta. Né si è di fronte a uno smembramento vocalico puro di qualcosa che poteva pretendere di preesistere alla distruzione. Siamo semmai all’integro, integerrimo; ci troviamo in compagnia di realia pressoché intatti, per quanto ideologicamente (dati come) corrotti, che vengono significati da altri realia ancora – non meno integrali, nelle loro caratteristiche formali. E comunicative.
Comunicano, fra l’altro la realtà della regalità del figlio. Il regicida, nel rovesciamento pasoliniano, è infatti il padre. Il padre abbatte il vitalismo non solo del proprio figlio, ma di una generazione intera che si rifiuta perfino di interessarsi all’uccisione dei genitori. Il vecchio potere così anticipa, sopravanza e schiaccia il possibile o impossibile nuovo.
*
[Parentesi di domanda (a Pasolini, forse). Perché replicare – sia pure dal rovescio – la finzione quotidiana dell’impalcatura del reale, le convenzioni e convinzioni, in letteratura, in poesia? La scrittura non è semmai precisamente l’allontanamento? O, almeno, un allontanamento? È il bersaglio che si allontana e costringe l’osservatore-arciere a corrergli dietro, raddoppiando, moltiplicando la difficoltà del tiro. L’oggetto testuale è dietro un orizzonte non piatto, ma dovuto a (costituito da) una curvatura]
*
Se da un lato Pasolini e il teatro di dizione-parola-rappresentazione-realtà-contenuto (o oggi un teatro pop, o stancamente neo-artaudiano, o di narrazione) operano un raddoppiamento del reale, del reale interpretato, fanno mimesi del falso, o del costruito, dunque falsificazione al quadrato, almeno Pasolini studiava come inserire in tutto ciò il plastico (nelle troppe accezioni) che avrebbe minacciato e minato – a suo dire – quella fictio(n). Il trucco antitrucco.
Pasolini nella sua opera dava insomma, al (presunto) contenitore retorico semistabile (borghese), taluni contenuti instabili e aggressivi che supponeva lo avrebbero fatto saltare. (O: che Pasolini per primo vendeva a se stesso come capaci di farlo saltare).
Il teatro dell’aneddoto invece, quello dei contenuti-contenuti, specie se fatto da quelli che Bene chiamava caratteristi (oggi magari macchiettisti), era ed è spettacolo pieno (e spettacolo di uno spettacolo che ormai hanno/abbiamo introiettato: il falso essendo un momento di quel che chiamammo e chiamiamo vero).
A questo punto, da cosa sentire diversità? Da che punto del problema teatro far scattare la tagliola del problema per la poesia? (O: la tagliola del problema che la poesia in sé è?). (O: saranno questioni o problemi che si parlano e si implicano?).
Forse è, questo, un falso problema. O forse gli va trovata altra forma, esposizione. Personalmente qui solo un cenno:
i testi in versi e prosa portati all’Argentina il 28 marzo scorso (così come il lavoro di Babilonia Teatri, che trovo in qualche modo in risonanza) sono materiale dubbioso, dubitante; non strategicamente ma proprio originariamente umbratile/umbrifero. E, in quanto organismi, si spostano, penso: cioè non vanno verso il cosiddetto pubblico, verso i tiratori. E quell’arciere lì che già correva righe sopra [nella parentesi] deve correre ancora, e di più, se vuole anche solo individuare il segno. Per: spostarsi oltre la curvatura del discorso.
Shelter e In rebus sono testi che non vogliono fare la grazia, al pubblico, della finzione quadra a cui è già avvezzo.
a tutte queste cose, con un tuffo in america, si arriva per decenza quotidiana, vasche calde piene di tag usati, un mucchio di catarro con sopra una scavatrice che slitta, un mucchio più alto ancora, con le pellicole dei filmini di quando eravamo scozzesi di pastasfoglia, mestruati nelle orecchie, pieni di noia, in un a parte che coinvolge il suggeritore a comprare un libro molto piccolo, quasi nano, senza nessun freno morale, almeno per l’inverno che viene, come uomini eliotiani, stufati, capaci solo di prestare numeri e scattare sull’attenti davanti al backup, appunto, tutti pixelati, ingranditi male già dal primo stampatore, käte con il gadget “mozilla maxilla”, gestione clienti in spagnolo per respirare, timbrati a mano.
una ricerca, anche fatta bene, non può rappresentare una scatola in vera plastica, o le piegatrici di cucchiai.
si fanno sì ripetuti tentativi di costruire cervelli, due linee, esportano una casualità.
ma tu sii sereno, indipendente. avvia un fastidioso programma ricreativo. anche qui non ci sono strutture che ci sostengano. le ragazze scout brasiliane zoppe pubblicizzano una marca di ozono. con tutto questo ben di dio non si può essere infelici.
i look like i was sitting inside the doctor. you’re supposed to delete all the tall windows from his drawings.
you’re probably wondering why the paradigm wall of guitars goes on installing jumbo jaws. (is “instead” the same of “inside”?). but –anyway– i decided i’ll soon start imagining the trees as if they were real, in the real world.
simple graphics demos include an obscene amount of roach-shaped drunk nerdkickers waiting for the mantrazen-generator software. morph this, you. war on toxins.