Archivi tag: Marcel Duchamp

[r] _ ma no, ma no, ma ni, non è morta, la poesia, su

Man Ray, Paris, mai, 1924

coraggio, editorialisti e notillatori, in rete e fuori, non prendete per forza alla lettera la grigiorosea parola postpoesia: non v’impauri, campioni.

la poesia non defunse, anzi della sua viridescente vis voi siete – è fama – i promoter più scafati e, mi si consenta, fichi.

è stagione, tuttavia, che dai vostri castelli vitivinicolmente muniti oscilliate il benigno capo a far sonare il sì, a testimoniare – intendo – che nelle vostre medesime letture tante tante volte v’è occorso di non incontrare il vocabolo che amate, ossia la non-morta poesì (avvezza a resurgere ogni minuto), bensì qualche altro lemma, diverso, divergente, che magari con la suddetta non aveva accidente alcuno da spartire. (obstupescit reader).

facendo mente locale:

epiphanies (James Joyce 1900-1904), tender buttons (Gertrude Stein 1914), tropismes (Nathalie Sarraute 1939), notes (Marcel Duchamp, pubbl. post. 1980), nioques (Francis Ponge 1983, Jean-Marie Gleize), proêmes (Ponge), textes pour rien (Samuel Beckett), antéfixes o dépôts de savoir & de technique (Denis Roche), descrizioni in atto (Roberto Roversi), verbotetture (Arrigo Lora Totino 1966), bricolages (Renato Pedio), domande a risposta multipla (John Ashbery; e cfr. Alejandro Zambra, nel nostro secolo), mobiles o boomerangs (Michel Butor), visas (Vittorio Reta), postkarten (Edoardo Sanguineti 1978), sentences (Robert Grenier 1978), subtotals (Gregory Burnham), films (Corrado Costa), schizografie (Gian Paolo Roffi), drafts (Rachel Blau DuPlessis), esercizi ed epigrammi (Elio Pagliarani), frisbees (Giulia Niccolai), anachronismes (Christophe Tarkos), remarques (Nathalie Quintane), ricognizioni (Riccardo Cavallo), anatre di ghiaccio (Mariano Bàino), lettere nere (Andrea Raos), linee (Florinda Fusco), ossidiane e endoglosse e microtensori e “installances” (Marco Giovenale 2001, 2004, 2010, 2010), tracce (Gherardo Bortolotti 2005), prati (Andrea Inglese), diphasic rumors (Jon Leon 2008), united automations (Roberto Cavallera 2012), paragrafi (Michele Zaffarano 2014), incidents (Luc Bénazet 2018), sentences (Cia Rinne 2019), defixiones (Daniele Poletti),  avventure minime (Alessandro Broggi), développements (Jérôme Game), conglomerati (Andrea Zanzotto), saturazioni (Simona Menicocci), nughette (Leonardo Canella), sinapsi (Marilina Ciaco), dottrine (Pasquale Polidori), disordini (Fiammetta Cirilli), spostamenti (Carlo Sperduti), spore (Antonio F. Perozzi). E aggiungerei le frecce di Milli Graffi.

veh, quante cose si posson leggere gioendo, senza per questo ammazzare la P maiuscola. come dite? ciò purtuttavia vi noia?

ah ma ecco allora perché Emilio Villa così parsimoniosamente o punto pregiate, e v’irrita.

invece che poesie ha scritto “cause”, “variazioni”, “attributi”, “phrenodiae”, “méditations courtes”, “videogrammi”, “letanie”, “sibille”, “trous”, “labirinti”, “tarocchi”, … tutte forme disperse come, già nel 1949, i suoi “sassi nel Tevere”.

è una litofobia, la vostra, ora intendo.

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luigi bonfante su duchamp, “fountain”

Gli elementi della rivoluzione duchampiana che portano alla realizzazione sia del Grande Vetro che dei readymade sono dunque gli stessi: il rifiuto della pittura, che è fatta con l’occhio e la mano, l’innovazione radicale, lo humour e l’ironia, l’indifferenza estetica, il gioco di parole, il caso. E tutti puntano verso una stessa direzione, paradossale per un artista: mettere in dubbio l’arte; o meglio, «farla finita con l’arte», «privare l’artista della sua aura», «sminuire il suo status all’interno della società». «La parola arte significa fabbricare, fare con le mani […]. Anziché farla, io la ottengo già fatta. […] è un modo per negare la possibilità di definire l’arte.»
L’Orinatoio vuole dunque rendere impossibile definire l’arte. E lo fa mettendo in cortocircuito l’utopia della libertà assoluta d’innovazione: se si elimina qualunque autorità estetica con il motto “niente giuria, niente premi”, s’impedisce sì, nel modo più drastico, che il passato limiti la libertà creativa, ma si legittima anche l’idea che chiunque possa essere artista e qualunque cosa egli proponga possa essere “opera”. Negli anni sessanta l’eredità di Fountain produrrà anche slogan come quello del movimento Fluxus “Tutto è arte e chiunque la può fare”, che troverà forti risonanze nello spirito di quel tempo e in molte esperienze artistiche coeve. Per esempio in Joseph Beuys, che criticherà Duchamp per aver abbandonato l’arte senza aver tratto la logica conclusione del suo gesto, cioè che «ogni essere umano è un artista».
Ma Duchamp era un dandy ironico e un individualista radicale, estimatore dell’Unico di Stirner. Basta pensare al Grande Vetro per capire che la sua produzione, così esoterica, enigmatica e sfuggente, ha ben poco a che fare con l’utopia di Beuys. Del resto, lo dirà esplicitamente: «L’individuo artista esiste, è esistito ed esisterà sempre, ma in quantità molto ristrette».
Anche se la rivoluzione di Duchamp (come quella di molte avanguardie del Novecento a partire dal Dadaismo) ha come conseguenza il dissolvimento del confine tra arte e vita, con Fountain egli non vuol dimostrare che tutto è arte e che quindi tutti possono essere artisti. Il suo primo, evidente intento è la dissacrazione dell’arte, di quell’arte che riteneva troppo “retinica” e troppo legata alla figura demiurgica dell’artista e al gusto. Il gusto è un’abitudine, diceva: «Se si ripete più volte qualcosa, si trasforma in gusto». Per questo si era messo a fare cose che sarebbe stato impossibile o assai difficile rinchiudere in qualche abitudine di pensiero, in qualche significato prestabilito. L’Orinatoio è l’esito più esplicito, caustico e ironico di questa dissacrazione dell’arte. Una dissacrazione che non corrisponde però all’antiarte del Dadaismo, perché l’antiartista, per Duchamp, è come un ateo: crede in negativo. Invece lui è uno scettico ironico, una mente cartesiana e corrosiva che dubita di tutto e non prende niente sul serio, a cominciare dall’arte stessa, che non vuole distruggere, ma appunto dissacrare: toglierle l’aura di superiorità, il carisma spirituale. Per questo ama definirsi “anartista”. A questo punto è evidente che l’opera più influente del Novecento non è un’opera d’arte, innanzitutto perché non rientra nel significato di “arte” elaborato dalla nostra cultura, per il quale bellezza ed emozione estetica sono concetti essenziali. Invece di suscitare emozione estetica, Fountain stimola domande di tipo filosofico: cosa fa di un oggetto un’opera d’arte? È davvero indispensabile che siano la mano, l’occhio e il gusto soggettivo dell’artista? Non potrebbe essere semplicemente il gesto mentale di scegliere qualcosa? (In fondo anche i tubetti di colore, arriverà a dire Duchamp, sono dei readymade scelti dal pittore.) In questo senso, anche se ironia, paradosso e ambiguità rendono inafferrabile il gesto di liberazione del readymade, si potrebbe dire che Fountain non è un’opera d’arte perché è un’opera sull’arte, un oggetto che stimola riflessioni sulla natura e il senso dell’arte stessa.

Luigi Bonfante CATASTROFE UNO. Duchamp e la spora aliena. Fountain, 1917-1963, in Catastrofi d’arte. Storie di opere che hanno diviso il Novecento, Johan & Levi editore, 2019

rai radio techetè: marcel duchamp

Rai Radio Techetè, dal 12 al 14 settembre in onda lo speciale

Marcel Duchamp L’Anartista

a cura di Francesca Vitale

h. 6:00, 14:00 e 22:00

@ Raisound_ Radio Techetè_ PALINSESTO

“In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”
(Ennio Flaiano)

altri nomi per altre scritture: due interventi recenti, anche su academia

Due interventi recenti (uno relativamente vicino) ho pensato fosse utile inserirli anche in Academia. Non essendo uno studioso ‘incardinato’, anzi tenendomi ben lontano dall’università, posso permettermi di inserire anche dei ‘draft’ incompleti (perfino giocosi, in qualche caso).

Cfr. https://uniroma1.academia.edu/MarcoGiovenale/Drafts (con bonus track su Bordini)

due interventi recenti di Marco Giovenale su Academia.edu

Fin dall’inizio del Novecento, se non da prima, si sono attestati altri nomi, e prima ancora altre forme, ad affiancare o francamente sostituire il vocabolo “poesia”. Dalle “epifanie” joyciane, dalle infinite escursioni verbali e verbovisive di Emilio Villa, fino alle prose in prosa francesi e italiane, il percorso è costellato di ‘entità’ scritte che sembrano scavalcare e beffare le divisioni in generi letterari, e non semplicemente allargare il contenitore poesia, ma uscirne completamente e – si direbbe – definitivamente, lasciando a chi resta (nel contenitore) di baloccarsi con versi, rime e ritmi.

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I due testi sono disponibili anche su archive.org:

https://archive.org/details/nioques-frisbees-e-altre-deviazioni

https://archive.org/details/poesia-non-morta

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ma no, ma no, ma ni, non è morta, la poesia, su

Man Ray, Paris, mai, 1924

coraggio, editorialisti e notillatori, in rete e fuori, non prendete per forza alla lettera la grigiorosea parola postpoesia: non v’impauri, campioni.

la poesia non defunse, anzi della sua viridescente vis voi siete – è fama – i promoter più scafati e, mi si consenta, fichi.

è stagione, tuttavia, che dai vostri castelli vitivinicolmente muniti oscilliate il benigno capo a far sonare il sì, a testimoniare – intendo – che nelle vostre medesime letture tante tante volte v’è occorso di non incontrare il vocabolo che amate, ossia la non-morta poesì (avvezza a resurgere ogni minuto), bensì qualche altro lemma, diverso, divergente, che magari con la suddetta non aveva accidente alcuno da spartire. (obstupescit reader).

facendo mente locale:

epiphanies (James Joyce 1900-1904), tender buttons (Gertrude Stein 1914), tropismes (Nathalie Sarraute 1939), notes (Marcel Duchamp, pubbl. post. 1980), nioques (Francis Ponge 1983, Jean-Marie Gleize), proêmes (Ponge), textes pour rien (Samuel Beckett), antéfixes o dépôts de savoir & de technique (Denis Roche), descrizioni in atto (Roberto Roversi), verbotetture (Arrigo Lora Totino 1966), bricolages (Renato Pedio), domande a risposta multipla (John Ashbery; e cfr. Alejandro Zambra, nel nostro secolo), mobiles o boomerangs (Michel Butor), visas (Vittorio Reta), postkarten (Edoardo Sanguineti 1978), sentences (Robert Grenier 1978), subtotals (Gregory Burnham), films (Corrado Costa), schizografie (Gian Paolo Roffi), drafts (Rachel Blau DuPlessis), esercizi ed epigrammi (Elio Pagliarani), frisbees (Giulia Niccolai), anachronismes (Christophe Tarkos), remarques (Nathalie Quintane), ricognizioni (Riccardo Cavallo), anatre di ghiaccio (Mariano Bàino), lettere nere (Andrea Raos), linee (Florinda Fusco), ossidiane e endoglosse e microtensori e “installances” (Marco Giovenale 2001, 2004, 2010, 2010), tracce (Gherardo Bortolotti 2005), prati (Andrea Inglese), diphasic rumors (Jon Leon 2008), united automations (Roberto Cavallera 2012), paragrafi (Michele Zaffarano 2014), incidents (Luc Bénazet 2018), sentences (Cia Rinne 2019), defixiones (Daniele Poletti),  avventure minime (Alessandro Broggi), développements (Jérôme Game), conglomerati (Andrea Zanzotto), saturazioni (Simona Menicocci), nughette (Leonardo Canella), sinapsi (Marilina Ciaco), dottrine (Pasquale Polidori), disordini (Fiammetta Cirilli), spostamenti (Carlo Sperduti), spore (Antonio F. Perozzi). E aggiungerei le frecce di Milli Graffi.

veh, quante cose si posson leggere gioendo, senza per questo ammazzare la P maiuscola. come dite? ciò purtuttavia vi noia?

ah ma ecco allora perché Emilio Villa così parsimoniosamente o punto pregiate, e v’irrita.

invece che poesie ha scritto “cause”, “variazioni”, “attributi”, “phrenodiae”, “méditations courtes”, “videogrammi”, “letanie”, “sibille”, “trous”, “labirinti”, “tarocchi”, … tutte forme disperse come, già nel 1949, i suoi “sassi nel Tevere”.

è una litofobia, la vostra, ora intendo.

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la “capsula del tempo” di tommaso cascella e sandro scarmiglia: a bomarzo il 16 luglio

CAPSULA DEL TEMPO

Tommaso Cascella – Sandro Scarmiglia

a cura di Serena Achilli

 

OPENING: 

Sabato 16 luglio, dalle ore 17

GIARDINO DEL SACRO BOSCO DI BOMARZO (VT)

È il 1552 quando Vicino Orsini inventa il suo Sacro Bosco “Sol per sfogare il core”, dando inizio alla costruzione di uno dei luoghi più enigmatici del Rinascimento.  Siamo in un periodo in cui era appena stato scoperto il Nuovo Mondo e iniziavano i grandi viaggi, con la conoscenza di nuove culture e di cibi, era l’epoca moderna. In Europa la Chiesa era divisa dalla riforma protestante, e la Controriforma e le guerre di potere confondevano il sacro con il profano. Roma, Venezia, Napoli e Firenze erano i centri di convergenza della cultura, nascono le Accademie e si rafforzano grandi famiglie come i Farnese e i Medici, con i quali gli Orsini incrociano la propria dinastia. In questo contesto di rivoluzione, nel piccolo feudo di Bomarzo, Vicino Orsini crea un giardino surreale, straordinario e disorientante, un labirinto ermeneutico. In epoca contemporanea Salvador Dalì per primo, poi Marcel Duchamp, André Breton, Willem de Kooning , Niki de Saint Phalle e molti altri personaggi dell’arte e della cultura visitano e rimangono affascinati dal mondo di Vicino, che dagli anni ’50 del secolo scorso è divenuto di proprietà e poi recuperato dalla famiglia Bettini. Come una “capsula del tempo” è l’opera di Vicino Orsini, perché improvvisamente ce la ritroviamo così contemporanea e, allo stesso momento, carica del suo tempo. Uno spaesamento che Tommaso Cascella e Sandro Scarmiglia, con le loro sculture, ripropongono attraversando un ponte temporale che si riconnette direttamente a questo luogo, creando nuovo mistero, ma anche confronto e dialogo.
Con cortocircuito temporale, fanno proprio il messaggio cifrato lasciato dall’Orsini. Cascella e Scarmiglia, per le loro forme arcaiche, usano il ferro e il cemento come a datare il nostro tempo tecnologico e precario. In una conversazione a due, anzi a tre considerando Vicino, riprendono il fantastico e l’alchemico del Parco inglobando tutto in un gioco di forma e luce intenso e fluido, in assoluta relazione e armonia con lo spazio.