On the occasion of the Summer School Rome – Dimensions of the book, a project which is part of the Master of Fine Arts Program at Zurich University of the Arts (ZHdK), Istituto Svizzero hosts an encounter with the interventions by Sara Davidovics, Marco Giovenale, Giulio Marzaioli and Nils Röller.
Leggo o ascolto, in queste settimane ma ormai da qualche anno, da parte di giovani o giovanissimi autori, testi non ironici connotati dalla più assoluta non coscienza dell’esistenza di cliché retorici e lessicali non resuscitabili se non — appunto — in forma ironica.
Rimango ovviamente di sasso, e i sassi si possono o scagliare o usare per qualche costruzione. Provo per un’ennesima volta la seconda strada.
L’invocazione o rivendicazione (che appartiene da che mondo è mondo a tutte le [ogni volta] nuove generazioni) è quella del diritto all’uso di tutto, di tutte le forme, le tradizioni, i vocaboli, i metri, i generi & degeneri. Ossia insomma tutte le cose che chiunque in prima battuta ha desiderato rivendicare all’altezza dei propri tredici-quattordici anni. Perfino con qualche carica elettrico-ormonale sensata. In fondo certe retoriche hanno centinaia di anni di storia, c’è di che emozionarsi.
Farò dunque la parte del laido Laio castrante, qualche momento prima di incontrare il mio destino, dicendo alle maestranze della fanciullezza che si tratta di errore, in una percentuale prossima a 100 su 100. Sono bellissimi i progetti di grondaie che fanno salire l’acqua, ma quando piove ti servono le altre, sennò si ingolfa il tetto e ti crolla casa.
Lessico, quindi, per prima cosa. Cosa si può fare? Accostarsi alla littéralité cercando di capire che non è il magazzino delle banalità. Evitare l’aulico, il dannunziano, ma pure l’anti-dannunzianesimo montaliano, ormai (e il “se” montaliano, per dire: ma qui siamo già alla sintassi). Tenere a debita distanza debiti e iperbati, inversioni, anafore persuasissime di colpire al cuore. Bon. Almeno questi passi, i primi dopo il girello e il sonaglino.
Per il resto, ogni ghibellino faccia la sua arte, e ogni guelfo pure. Ma per favore partendo dal minimo tollerabile.
In più di un’occasione, da parte di più intellettuali, critici, autori, critici-poeti, e altre figure legate al mondo dell’itala lettera, nei lustri recenti s’è alta levata come il falco montaliano la doglia nota come “indove so’ finiti l’intellettuali”? Disparve lor ruolo? Una volta Moravia disse toot toot e ora nessuno più flauta? E Pasolini? Ne vogliamo parlare?
Eccetera.
Once upon a time il poeta effàva e la massa gioente in lui si specchiava, si dice. Pasolini andava in tv, ora non più.
E, all’incontrario, quelli párvuli che vengono alla telecamera e in essa si fanno esposti al videoriquadro oggidiano, vedi, mai potrebbono del PPP vantare ruolo, autorevolezza, tono, ma manco i rayban e la mandibula. Men che meno il curvarsi, pensoso.
S’è voltata una pagina, chiuso un libro. Il poeta più alcuno lo pregia. Una volta spostava i voti e creava dalla creta i golem, le sentenze, il sole e la tenebra, più di Berlinguer, ex nihilo sui et subiecti. Mo no. Fine.
Allora mi sono fatto questa idea, vi dico, questa convinzione: che legislatore il poeta o l’intellettuale mai è veramente stato, anzi ragioniamo al contrario, e:
in verità in verità vi dico, o vi direi, col beneficio non dell’inventario ma dell’archivio: facciamoci mente locale, in generale, e vediamo che non è venuta meno la possa del poieta, è semmai che negli anni Sessanta e forse Settanta ancora la tv non avea capito di essere un’altra cosa, e di avere il potere. Lei.
Ancora pensava, prepúbere, di doversi legittimare innanzi al pubblico attraverso (appunto) gli òmini di lettere. C’è voluto un po’ perché capisse di essere lei (la comunicazione, lo spettacolo) L’INTELLETTUALE. E anche il poeta, alla bisogna.
Per cui tutto questo fioccare di avemarie dell’una volta si stava meglio quando si stava intellettuale, non ha ragione d’essere. Anzi, non ha da essere. (Perché mai è veramente stato).
*
Quando la tv o meglio la Comunicazione (mediale) ha capito, s’è presa daddovero ciò che già elettivamente era — ab imo — suo: tutto.
E gli intelletti che ora ci vogliono “interagire” (sic est “comparire”: comparse) ad essa ratti si debbono apprendere, e assimigliare. Per anni bagnaron le chiome nel D’Annunzio, or sanno a che fine. E anche sanno cosa serve e cosa no; e
domenica 20 giugno alle 19:30 MG a Lucca, nel parco davanti al Foro Boario, accanto allo skate park lungo il fiume, @ Borda!Fest – Produzioni Sotterranee (18, 19 e 20 giugno) a leggere e a parlare di scritture di ricerca, prosa in prosa, materiali verbovisivi & scritture asemiche.
I really like Rosaire Appel’s idea of a “transition strategy”.
Often the signs of an ongoing research are not covered nor coded nor represented by any known “language”. They actually build-and-deconstruct some kind of new (non)language.
And it seems to me that our definitions often fail to grasp the flickering borders of the asemic land. It seems like we are (happily) dealing with aesthetics, rather than linguistics.
More. (And incidentally:) I ask myself: do we absolutely need definitions? Or do definitions & theory rather belong exactly to the territory we are just flying away from?
Tim gaze : “asemic writing says what I cannot say in words” (from a text in the muse apprentice guild).
Anni fa mi ero inventato il blog flarf.it per scrivere manipolare escogitare o semplicemente riportare (come oggetti trovati) materiali flarf, kitsch, pacchiani, traslabili dalla / reperibili nella realtà dei quotidiani di carta e nelle conversazioni. E nella italica poesia naturalmente. Come dimenticarla?
Poi con il tempo e col crescere delle sidebar di repubblica.it ho dovuto osservare che la realtà della comunicazione generalista era già di per sé interamente flarf, oltre l’immaginabile, overwhelmingly.
Produceva di suo. Macinava spazzature in quantità irrappresentabili, e in crescita esponenziale. E, inversamente proporzionale (rima inclusa), decresceva nei lettori la più semplice, immediata, tattile, capacità di vederlo, il kitsch.
[Di qui il ritorno serio serissimo del tragico, del sublime, del lacrimante, del lacerante, dell'”impeggnato”, dall’iperbole all’iperbato, da Heine a Merini, sui cavallucci, tra le frasche, all’ombra dei cipressi e dentro l’urbe, con e senza grazie, new & old age, tutti scardanelli, il paese degli scardanelli, però come burle, e però non avvertite come tali, anzi fitte di assertivissimi like].
Così, pure in versi e scritture, facebook stava dando visibilità a slavine di flarf irriflesso, incosciente, busti di similgesso pitturato con l’evidenziatore, cartelli e frecce alti levàti, colla scritta “qui poesia”, kitsch involontario quanto divertente, a volte addirittura inconsapevolmente funzionante come vettore di (sorridevole) senso.
Ho chiuso il blog, amen, e vari anni dopo ho poi svogliatamente ma con intenzionale tonta fiducia aperto una pagina flarf.it su facebook: https://www.facebook.com/flarfitalia/
Leggermente più memoriale, più ‘archivistica’ che militante. (Ormai non la battaglia ma la guerra è persa).
Bon. Nel frattempo l’esplodere del meme come (saltuariamente) mattoncino di flarf isolato, oppure esperimenti come quelli di Luca Rizzatello con falsi autori e false copertine di libri iperlirici o comunque iperconnotati, ri-viralizzavano (meglio che rivitalizzare) tutta la faccenda, assai felicemente credo. (Barlumi di intelligenza contro il Lete+Cocito generalista).
Vero è però che oggidì (e tuttodì), tutto, id est editoria, rete, clip di pop, plop di chip, toletterie per cani, pubblicità partitiche o meno, ministri e ministeri, cinesi e romanacci inversaciti, madonnari, nonsolopizza, cartoni, videogiochi e film, cantautori e grigliate condivise nel passato o nel futuro, erano sono saranno una festa del cattivo gusto. Pesanti o levissimi.
In questo libro di prose che sorprendono la poesia, e di poesia che si fa prosa, Marco Giovenale continua il suo cammino quasi ventennale su quella strada che legittimamente chiamiamo “prosa in prosa”. Non narrazione e non poesia. Qualcosa di più e di meno di entrambe.
Il libretto è una sequenza di quadri un po’ folli, un discorso che dalla prima pagina si vuole “chiaro” e comprensibile a tutti, e allo stesso tempo “sfalsato”, fuori sincrono, sorprendente.
Le prose qui raccolte mostrano vicende e affermazioni al limite del surreale, e allo stesso tempo pienamente reali: parlano di alberi, democrazia, psicofarmaci, tasse, doppiaggio, Testaccio, corsi di chef, scatole nascoste, gente che ha il diritto di sapere, impiegati di banca in campagna, recintati. E poi ancora schermi, romanzi morali, mobili in vendita, Poseidone e altri dèi, microfoni e corrieri, locali di successo, per giovani, cantanti e carte di credito, YouTube, levrieri, interviste, e un generatore casuale di repubbliche.
Insomma, un libro “per tutti e per nessuno”, come direbbe Nietzsche, che lo comprerebbe subito.
Alcuni testi di ricerca contemporanei, a mio modo di giudicare, si avvicinano molto a rappresentare anzi essere — in silenzio o meno — quel tipo di ‘testo installativo’ (ma in qualche modo performativo, pure: in parallelo) che si può gustare in tutta evidenza ad esempio nei brevi weather reports che David Lynch da qualche tempo pubblica su youtube o instagram: cfr. https://www.instagram.com/tv/CPBMECtHMwT/.
Mi domando molto seriamente come si possa stare seri (soltanto seri) ascoltando la voce scandita di Lynch in questo come in decine di altri meteo.
Quando senza variazioni di tono annuncia, a fronte del cloudy sky della mattina, cieli blu e tramonto dorato per il pomeriggio, difficilmente penso si possa trattenere almeno un sorriso. E il saluto finale, augurale, da parte sua, non manca di teatralissima gioia, sottolineata. Evidenziata, sopra le righe: senza rughe di perplessità, e — proprio per questo — inquietante. (Il cinema di Lynch è l’epitome dell’Unheimlich, del resto).
Quando per Carlo Bordini parlo di testi scritti in un bilico che rimane tale, che resta sul filo della lama, che cioè non dà suggerimenti al lettore per interpretare in senso ironico o meno la pagina, dico qualcosa di niente affatto diverso. Leggendo non si può evitare un sorriso, condividendolo o credendo di condividerlo con l’autore; e non si può, del tutto parallelamente, dubitare che sia legittimo, che l’autore proprio al sorriso volesse condurci. Ci dà una casa ma abitandola la troviamo tutta bucata, buffa, e in pericolo, storta: e insieme protettiva, pertinente.
In questa indecidibilità, che finisce per essere almeno un suggerimento di ironia da dedicare all’ironia stessa, per me risiede parte consistente della produzione di senso di opere non solo di Bordini, ma prima ancora di Corrado Costa e spesso dello stesso Emilio Villa. Per non parlare dell’accidentato atto del parodiare-smentirsi-parodiare che è praticamente in tutta l’opera di Carmelo Bene.
Fino a ragionare su chi nel ventennio recente si è occupato di simili sintonie (non solo italiane) e non poche ne ha create: cito solo, per rapidità, i casi delle Avventure minime di Alessandro Broggi, e dei Cinque testi tra cui gli alberi (più uno), di Michele Zaffarano.
installance n. : # 0156
type : asemic writing on a plastic hook
size : ~ cm 5,2 x 1,5
records : highres shot
additional notes : abandoned
date : May 13th, 2021
time : 5:57pm
place : Rome, via di Donna Olimpia
footnote : ---
copyright : (CC) 2021 differx
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Differenze, ripetizioni, ritornelli, brand new stuff e molto altro.
Poi non dite che non vi avevo avvertito, e che Hejinian vi suona nuova, Tarkos non lo conoscete, l’asemic writing è un gateau di semi e i non assertivi sono un progetto Marvel.