Ogni tanto leggo in rete una qualche rivalutazione del sottobosco. Ma più spesso una definizione del tutto scorretta: il sottobosco sarebbe il cumulo degli autori semplicemente non ancora affermati. Al loro affermarsi, ecco che per magia perderebbero l’epiteto di sottobosco.
INVECE, a quanto ritengo e ricordo (e stando a quanto spesso e volentieri sosteneva con energia Giuliano Mesa, per dire), il sottobosco è altra cosa. Si tratta dei cattivi poeti – privi di elementi di qualsivoglia evoluzione promettente. Poeti e scrittori pacchiani, kitsch, inconsapevolmente ridicoli, spesso tonitruanti, altre volte miti e appartati (per fortuna).
Al sottobosco (lirico, sperimentale, neoimpegnato, cinico, realista, tuttista) in questi ultimi decenni è stato offerto più di un passaggio in ascensore. Se ne contano molti, di autori illeggibili traghettati verso il timbro di “poeta” dall’editoria maggiore, media, minore e minima (ma di qualità, mi raccomando).
Questo però esula dalla questione nomenclativa, che mi premeva qui registrare.
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Alcune citazioni in corsivo da questo articolo di Fabrizio Spinelli su RivistaStudio, e mie risposte o annotazioni:
Ci sono delle eccezioni, ovviamente, ma l’impressione è questa: che la poesia abbia smesso di vivere nel proprio tempo, di raccontare il proprio tempo, di cercare una forma adatta al proprio tempo – e che invece insista su problematiche unicamente formali, “poeticizzi” oppure al contrario esaurisca gli ultimi empiti di avanguardia, si richiuda in una lallazione autistica.
Insomma o in un’ampolla o nell’altra. Dalla clessidra non si esce, neanche quando ti capovolgono (e succede in continuazione).
La poesia, negli ultimi decenni (generalizziamo? Sì, generalizziamo), ha smesso di fare quello che tutta la poesia seria ha sempre fatto: cantare la condizione dell’uomo nel proprio tempo. E per un poeta nato negli anni ’70 o ’80 il problema non è secondario: come si fa? Come cantare l’ipermodernità capitalista, Amazon, il razzismo sistemico, le disuguaglianze sociali, l’ondata di femminicidi, come cantare Internet, i problemi di sostenibilità cognitiva del nuovo terziario diffuso, la crisi economica, Minecfrat, Tinder, la depressione, lo sport in tv?
Ma perché generalizzare? (E perché “cantare la condizione…”?; ma questa è un’altra faccenda).
Comunque, una botta di pubblicità biecamente autoreferenziale: “Le prose qui raccolte mostrano vicende e affermazioni al limite del surreale, e allo stesso tempo pienamente reali: parlano di alberi, democrazia, psicofarmaci, tasse, doppiaggio, Testaccio, corsi di chef, scatole nascoste, gente che ha il diritto di sapere, impiegati di banca in campagna, recintati. E poi ancora schermi, romanzi morali, mobili in vendita, Poseidone e altri dèi, microfoni e corrieri, locali di successo, per giovani, cantanti e carte di credito, YouTube, levrieri, interviste, e un generatore casuale di repubbliche” (https://ticedizioni.com/collections/chapbooks/products/la-gente-non-sa-cosa-si-perde-giovenale). (Avrò cantato una qualche condizione? Boh. O sarò stato lallante & autistico? Chissà).
Sono domande che ogni poeta dovrebbe farsi, prima di comporre l’ennesimo testo breve dal significato altamente elusivo o l’ennesimo collage asemico che risponda al concetto di schizofrenia dell’uomo moderno secondo Deleuze e Guattari
Se per “collage” si intende qualcosa che riguarda la poesia o il montaggio di versi leggibili, vedo che continua adamantina la confusione tra “asemic writing” e scrittura lineare (di ricerca, che ovviamente equivale a incomprensibile o pervicacemente estranea alla “condizione dell’uomo” contemporaneo).
Quella tra scrittura lineare e asemic writing è una confusione (certo involontariamente) fake che si può far risalire al 2013, e che ormai si è memizzata, è diventata un luogo comune. Va corretta, comunque, sennò proseguirà a diffondersi. (Lo so: non sarà corretta, e lo so: proseguirà a diffondersi). (Peace).
Disamina finita.
Beh, insomma…
Ora parliamo di Claudia Rankine
Thumbs up.
…lo sperimentalismo di Liv Hejinian e di altri poeti in odore di L=A=N=G=U=A=G=E…
Occhio, non “Liv”: è “Lyn” Hejinian. Un’occhiata a slowforward non guasta: https://slowforward.net/?s=hejinian. Hejinian, in ogni caso è stata tradotta per (conosciuta e fatta conoscere da) quegli oscuri antilirici punk di gammm nel 2007 ed è presente anche in forma cartacea dal 2012 grazie alla collana ChapBooks di Bortolotti e Zaffarano, insieme a una robusta flottiglia di autori (non solo langpo) stranieri e italiani che (teste Picconi), sono assai assai meno interessati a una diatriba fra lirici e sperimentali, rispetto ad altre distinzioni e ramificazioni. (Che non sempre tutti i critici condividono, ma questo è il bello della letteratura). (O sarebbe. Se qualcuno mai leggesse).
§
Citazione in explicit (che – sono certo – verrà data per scontata, e daccapo verranno non effettivamente letti gli autori che vi sono nominati):
[…]
Tarkos semplicemente descrive quello che vede. Non ci dice ciò che dovremmo vedere. Simile anche in questo a [Corrado] Costa, non ha firmato in nostra vece un accordo retorico in base al quale venga deciso come noi stessi interpreteremmo i dati di realtà (di cui ci parla): parla, [Christophe] Tarkos, di un oggetto e nient’altro, non proietta sulla distanza che ci separa da lui le regole secondo le quali dovremmo, noi che leggiamo, funzionare.
Osserviamo il primo dei Sette anacronismi – scelti dal più ampio Anachronisme, P.O.L., Parigi 2001 – tradotti da Michele Zaffarano nella collana ChapBook di Arcipelago (http://gammm.org/index.php/chap/).
[…]
Brani come quelli di Costa (così come potremmo prenderne dal Porta di Partita, o dal Balestrini di Tristano, da testi di Mariangela Guatteri o Andrea Inglese) vengono additati dal cipiglio di chi non ama la scrittura di ricerca come testi… complessi, addirittura malati di “strutturalismo”, nostalgici di Laborintus, indecifrabili: oscuri. Ci si può legittimamente domandare cosa ci sia di indecifrabile in Retro di Costa, o in Tarkos, o nel brano di Ida Börjel Una storia senza chiasso, dalla serie Europeiska Midjemått, tradotto dall’inglese da Gherardo Bortolotti (cfr. http://gammm.org/index.php/2009/04/16/da-europeiska-midjematt-ida-borjel-2001-ii/)
[…]
Nel 2013 (daccapo) quanti leggevano le finalmente tradotte Hejinian, DuPlessis, Quintane? https://slowforward.net/2013/02/27/7marzo-roma-nuovi-chapbook-arcipelago/
Nota bene: “noi” (gli incomprensibili asemici punk) non presentavamo questi libri nel baretto sotto casa, ma nella Sala Capizucchi del Centro di Studi italo-francesi, a Roma, in piazza Campitelli 3, a due passi dal Campidoglio, grazie a Luigi Magno, di e per l’Università RomaTre. Come del resto si era fatto nel 2012 con numerosi autori lì chiamati per un convegno; e poi nel 2014 con la presentazione degli atti. La presenza di Gleize a Roma (per il convegno del 2012) aveva perfino riscosso l’attenzione dell’allora ancora esistente “Unità”, ma in quanto a presenza di pubblico diciamo che non avevamo avuto propriamente un effetto stadio. Senza contare che nei mesi o anni successivi l’esistenza degli oggettivisti vecchi e nuovi avrebbe suscitato nel giornalismo cartaceo (e nella critica allitterante) una favolosa ondata d’indifferenza, e in siti e blog tutt’al più si sarebbe avuta qualche puntura piccata e un prevedibile malumore di sottobosco.
Il reale arriva, arriva sempre. Sono gli italiani (alcuni) a restare seduti su un altro binario.
Il tutorial è una vispa integrazione al VERO MANUALEper il raggiungimento della prosa in prosa a modico prezzo e con ogni mezzo necessario: https://ticedizioni.com/products/prosa-in-prosa _
nelle scritture di ricerca contemporanee, non assertive, sono non pochi i fili del tessuto (annodato/sciolto) che viene da CB. (o che a quello trovo personalmente sia necessario vengano connessi).
l’idea di una scrittura di scena (in teatro) e la sua netta affinità con il materiale grezzo delle scritture installative (in letteratura): materiale d’uso, oggetti indifferenti, buoni per organizzare lo spazio.
la distinzione radicale (già lacaniana) tra Moi e Je, con il verbigerare del soggetto dell’inconscio in primo piano. (che poi è sempre un piano inclinato, sbagliato, de-pensato per farlo finire fuori scena).
l’errore, lo scivolamento, il mancare del testo-gesto azione a favore del continuo sgretolarsi dell’atto. (a-temporalmente: aion che smentisce sé e scavalca chronos).
l’ironia, e il ridere di sé. e finalmente la caduta della malsana abitudine di dare appuntamento al lettore là dove il lettore già è.
la buona prassi di procedere frontalmente “contro la riproduzione” (come scriveva Corrado Costa nella Sadisfazione letteraria, 1976). altro modus operandi del contrasto alla “rappresentazione”.
l’articolare il linguaggio come un inconscio. (con l’aggiunta, direi, di un elemento nodale: spostare l’inconscio fuori dal corpo-storia dello scrivente. anche google è meglio del miglior scrittore).
la (deleuziana) intenzione anzi prassi di parlare la propria lingua dall’interno di un contesto ma come una lingua minore.
agire – che è straparlare – da minori (Kleist, forse, non Goethe) e intempestivi, senza cognizione di storia.
lo spostamento del bersaglio fuori dal logos, per poi mancare anche lo spostamento stesso.
(in arte, poi/insieme, il glitch ossia l’errore; e l’asemic writing, ossia l’illeggibile).