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sul decreto nordio e la situazione nelle carceri: patrizio gonnella sul “manifesto”, oggi

Il sovraffollamento carcerario non è una calamità naturale. È l’esito di scelte politiche repressive e illiberali. Nordio presentando il decreto legge in materia penitenziaria ha detto che non è colpa del governo se le carceri si riempiono di detenuti. Non è vero.

Il sovraffollamento è il prodotto di politiche proibizioniste e repressive che vanno a colpire i più vulnerabili. Un sovraffollamento che andrà a crescere se mai dovesse essere approvato un altro provvedimento del governo che prevede in sequenza: carcere per chi protesta con il proprio corpo; carcere per chi disobbedisce alle leggi; carcere per gli occupanti di case; carcere per chi scarica materiale esplosivo dal web; carcere per le donne detenute in stato di gravidanza o con un bimbo molto piccolo; tanto carcere per chi protesta in galera con manifestazioni nonviolente di resistenza passiva. È questo, in sintesi, il contenuto del pacchetto sicurezza voluto dal governo che l’Osce ha definito un rischio per lo Stato di diritto. È in discussione alla camera dei deputati, e se dovesse essere approvato senza modifiche, ci farà tornare indietro di cento anni, ossia ai tempi di Rocco e Mussolini. Continua a leggere

Andrea Fabozzi sul ‘manifesto’, a proposito dei fatti di Pisa e Firenze

Andrea Fabozzi
https://ilmanifesto.it/

«Trovandone condivisione» è una di quelle formule politiche zoppicanti nella sintassi ma efficaci nella sostanza destinate a essere ricordate a lungo. Il presidente della Repubblica l’ha inventata per sgretolare la linea del ministro di polizia Piantedosi, che ancora l’altro giorno difendeva i pestaggi di Pisa e Firenze, senza umiliarlo ufficialmente.

Mattarella fa sapere di avergli «fatto presente», e anche qui il termine molto pesante è scelto con cura, le regole della nostra Costituzione, ma prima ancora della nostra stessa convivenza civile. Il ministro alla fine, vuole l’ufficialità, ha condiviso. Ma è chiaro che la correzione di rotta del Quirinale non poteva essere più brusca e netta e questa sfiducia di fatto consiglierebbe a chiunque di farsi da parte. È chiarissimo però che Piantedosi non si dimetterà.

Il ministro che doveva essere la versione più accorta di Salvini – e sta invece riuscendo nella missione impossibile di fare peggio – è la conferma della regola aurea per cui alla guida del Viminale non bisogna metterci un prefetto. Imperturbabile quando ha chiamato i migranti «carico residuale» o quando ha dato la colpa dei profughi morti in mare ai loro genitori incoscienti, sopravviverà anche stavolta.

Al «fallimento», come lo ha chiamato senza mezzi termini il capo dello Stato, che è un fallimento doppio. Prima quello dei «manganelli» sui «ragazzi» – nemmeno qui il presidente ha usato metafore – e poi quello della comunicazione successiva, senza una mezza parola di scuse ma solo la rivendicazione delle violenze.

Così ha fatto anche Meloni, silenziosa e poi nascosta dietro lo squallore di una nota anonima del partito in cui però è fin troppo evidente il suo stile di vittima perenne. La colpa anche stavolta sarebbe della sinistra. Una risposta vigliacca con dentro il vecchio tic autoritario e il nuovo oscurantismo calato sulla causa palestinese e su tutto il protagonismo dei giovani.

Ma anche una sfida al presidente della Repubblica che prende corpo giorno dopo giorno quasi inevitabilmente, persino oltre le convenienze immediate della capa del governo. Dimostrazione evidente di dove lei intenda portare il paese con la sua investitura diretta e in quale gabbia voglia rinchiudere il capo dello stato con il passaggio al premierato. Se la risposta più ferma ai manganelli di stato la danno le piazze che si sono immediatamente riempite, l’allarme più forte su dove potrebbe portarci la riforma costituzionale della destra lo suona Mattarella.

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già in slowforward:
https://slowforward.net/2024/02/26/andrea-fabozzi-sul-manifesto-a-proposito-dei-fatti-di-pisa-e-firenze/
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luglio ’60 / carlo bordini

Nel 1960 ci fu un tentativo di instaurare in Italia un governo di destra, il governo Tambroni. Era un monocolore democristiano appoggiato dai neo fascisti dell’MSI. Questo governo voleva essere una risposta a una ripresa operaia che era cominciata in Italia nell’anno precedente, e che si esprimeva in una forte ripresa degli scioperi dopo gli anni bui del dopoguerra.

Il governo Tambroni si caratterizzò subito per provvedimenti illiberali (divieto di alcune manifestazioni e di alcuni comizi) e in questo clima fu permesso ai neofascisti, che si erano ricostituiti in partito da poco, di tenere un loro congresso a Genova.

Ora, Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, era una città antifascista sul serio. C’erano ancora i partigiani che quindici anni prima avevano cacciato i tedeschi dalla città. Si fece una grande manifestazione a cui parteciparono partigiani, portuali e la base del partito comunista. La polizia cercò di disperdere la manifestazione e ne nacque una grande battaglia in cui i portuali, gente molto dura, sconfissero nettamente la polizia. Molti poliziotti furono feriti e a molti di loro furono sottratte le armi. Questo avvenne il 30 giugno. La sera di quel giorno i partigiani tornarono ad accamparsi in montagna, nelle colline intorno a Genova, e accesero fuochi che si vedevano dalla città. Da questo episodio nacque l’insurrezione del Luglio 60.

Vi furono manifestazioni in tutta Italia. La polizia sparò e uccise diversi manifestanti. A Roma i partigiani furono caricati dalla polizia a cavallo. L’insurrezione si propagò da città a città, da notizia a notizia. Dopo alcuni giorni i sindacati indissero uno sciopero generale. Il governo Tambroni si dimise e da allora cominciò in Italia la lunga serie dei governi di centrosinistra che bene o male dettero all’Italia una democrazia più o meno normale.

Si tratta dunque di un episodio fondamentale nella storia recente italiana. Se non ci fosse stata la reazione di Luglio 60 la storia sarebbe stata molto diversa: l’Italia sarebbe tornata a una forma di fascismo strisciante e mascherato. I nuovi governi di centro sinistra non fecero miracoli, ma nazionalizzarono l’energia elettrica, fecero una riforma agraria che portò alla scomparsa della mezzadria e alla formazione di una vasta piccola proprietà contadina. Le lotte sindacali e politiche si svilupparono in un clima relativamente permissivo.

Luglio 60 non fu organizzato dal Partito Comunista. Nacque spontaneamente e si diffuse spontaneamente. Vi partecipò la base del PCI, ma il partito non prese mai una posizione netta. Non diresse le lotte. I giornali del PCI facevano articoli di fuoco che suscitavano la rabbia e l’indignazione, ma non davano indicazioni di lotta. La gente si riuniva, discuteva e partecipava.

Il PCI fece molta retorica sui “giovani dalla maglietta a strisce” che avevano partecipato a Luglio ’60 e salvato la democrazia, ma pian piano la cosa venne dimenticata. Nessuno ne parlò più. Nessuno si riferì più a quel periodo. Oggi nessuno ne sa nulla.

Luglio ’60 non diventò un punto di riferimento per nessuna forza politica. Non se ne parlò più, né per esaltarlo né per esecrarlo. Credo che questo dipenda dal fatto che fu un movimento che sfuggì di mano a tutti, e che potrebbe diventare un esempio pericoloso. Fu utilizzato e messo in disparte: sarebbe invece opportuno, oggi, ricordarne l’esistenza.

Post scriptum. Quando questo avvenne io avevo 22 anni. Non ho nulla da cambiare a quanto ho scritto, ma voglio aggiungere una considerazione: se non ci fosse stata la sinistra democristiana, che si alleò coi socialisti, e formò il centro-sinistra, l’esito della vicenda sarebbe stato diverso.

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[da una mail circolare, con fotografie, di Carlo Bordini, 1 agosto 2018]