Paolo Consiglio (da https://www.facebook.com/share/1D7QB2pHbL/)
Ramallah e Khan Younis, oggi, nel totale silenzio delle TV occidentali, tornano i prigionieri palestinesi, ma non c’è più una casa dove tornare.
Mentre i media celebrano il ritorno degli ostaggi israeliani, a Ramallah e Khan Younis migliaia di palestinesi escono dalle carceri israeliane dopo anni di detenzione amministrativa. Li aspettano le rovine, non le telecamere.
A Ramallah e Khan Younis la folla si è riversata per le strade come un fiume umano. Madri che piangono, fratelli che si stringono, figli che non ricordavano più il volto dei propri padri. Sono le prime immagini che arrivano dopo la liberazione di oltre 1.700 prigionieri politici palestinesi, rilasciati da Israele nell’ambito della tregua seguita al cessate il fuoco.
Sono tornati in patria accolti come eroi, come fratelli, come figli perduti.
Hanno passato anni nelle carceri israeliane, spesso senza processo, senza accuse formali, in quella che le organizzazioni internazionali definiscono “detenzione amministrativa”: un limbo legale dove la libertà è sospesa e il diritto non esiste.
Eppure, di loro, quasi nessuno parla.
Mentre i telegiornali occidentali trasmettono in loop le immagini degli ostaggi israeliani liberati, sorridenti e assistiti dalla Croce Rossa, i prigionieri palestinesi vengono scaricati dai pullman in mezzo a una folla commossa, ma invisibile agli occhi del mondo. Nessuna intervista, nessuna visita medica documentata, nessun servizio speciale.
Il silenzio mediatico è assordante.
La differenza di trattamento è lampante: gli ostaggi israeliani vengono accolti come simboli di libertà, i palestinesi liberati come sospetti, come ombre. Ma molti di loro non hanno mai imbracciato un’arma: sono giornalisti, studenti, attivisti, madri, ragazzi arrestati durante manifestazioni.
Hanno trascorso anni dietro le sbarre senza sapere di cosa fossero accusati.
E ora che tornano, non trovano più una casa.
Perché le loro case sono diventate macerie. Le strade dove giocavano da bambini non esistono più. Molti dei loro familiari sono morti nei bombardamenti. La Striscia di Gaza è un cimitero di polvere e macerie, non un luogo dove ricominciare.
Eppure il mondo applaude altrove.
Il doppio standard occidentale è diventato insopportabile:
per gli uni ogni parola è compassione, per gli altri ogni parola è sospetto.
Si parla di “ostaggi israeliani” con toni commossi, e di “prigionieri palestinesi” con distacco tecnico. Ma la verità è semplice: molti di questi prigionieri sono considerati da organizzazioni per i diritti umani ostaggi di un’occupazione militare, vittime di un sistema che usa la detenzione preventiva come strumento politico.
E allora, guardando le immagini che arrivano da Ramallah e Khan Younis, non si può restare indifferenti.
Quella folla che grida e piange non celebra la vendetta, ma la sopravvivenza.
Ogni abbraccio, ogni lacrima, ogni gesto di vittoria è un atto di resistenza alla disumanizzazione.
Perché la libertà — quella vera — non ha confini, né appartenenze.
Ha solo un volto: quello di chi, uscendo da una prigione, rivede il cielo.
Eppure, anche oggi, nei notiziari italiani non c’è spazio per loro.
Perché raccontarli significherebbe riconoscere che la giustizia non è uguale per tutti.
E questa, in tempi come questi, sembra essere la verità più indicibile di tutte.
Paolo Consiglio
Fonti principali:
– Al Jazeera English, 13 ottobre 2025: “Thousands gather in Ramallah and Khan Younis to welcome released Palestinian detainees.”
– Reuters, 13 ottobre 2025: “Israel releases over 1,700 Palestinian prisoners amid ceasefire deal.”
– Haaretz, 13 ottobre 2025: “Families of Palestinian detainees celebrate their return as media focus remains on Israeli hostages.”
– Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (OCHA): “Humanitarian Situation Report – Gaza and West Bank, ottobre 2025.”
– Addameer Prisoner Support and Human Rights Association: dati aggiornati sulle detenzioni amministrative israeliane.
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